sabato 16 novembre 2013

CARRO UOMO E ARTISTA: un tentativo di ritratto - dello scultore Fabrizio Mismas

Venerdì 15 novembre, alle ore 17.30, al Museo Diocesano della Spezia (via del Prione, 156), lo scultore Fabrizio Mismas, già docente al Liceo Artistico di Carrara, ha tenuto una conferenza dal titolo “Carro uomo e artista: un tentativo di ritratto", documentata dalla proiezione di interessanti diapositive sulla continuativa e significativa testimonianza resa all’arte dall’apprezzato scultore spezzino scomparso nel 2001.

L’omaggio espositivo dedicato a Guglielmo Carro (1913-2001), nel centenario della nascita, è visitabile sino al 9 dicembre p.v. con il seguente orario: giovedì 10.00-12.30; venerdì, sabato e domenica 10.00-12.30 e 16.00-19.00

PER GUGLIELMO CARRO di Fabrizio Mismas
Il brano è stato scritto nel Luglio del 2001, all’indomani della scomparsa di Guglielmo Carro.

Guglielmo Carro 
- nel suo studio -
Parrà strano ma, in questo momento di vuoto, il mio pensiero rimugina sui giovani artisti che sono a venire.E mi dispiace per quelli che, schifando Spezia come retroterra provinciale dall’alto della loro sussiegosa alterigia, abbozzeranno un compassionevole risolino nei confronti delle glorie locali, perché non avranno conosciuto Carro. Mi dispiace per quelli che, freschi di studi accademici all’ombra di docenti sputasentenze, si sentiranno decurtati se accomunati con la nostra tradizione d’arte, perchè non avranno conosciuto Carro. 
Mi dispiace per coloro che, ci saranno anche questi per fortuna, cercheranno di comporre in una sequenza logica le notizie e le immagini disordinatamente raccolte su questo nostro presente e, nonostante la dedizione profusa, a proposito di Carro assembleranno solo improbabili abbozzi. Perché non avranno potuto immaginare quel creativo groviglio di contraddizioni: di ordine teatralmente caotico; di profonda coscienza di eventi mai visti da vicino; di generosità senza fondo e di impetuosa ira subito repressa; di cultura tanto sottile e onesta da frapporsi ostacolo al lavoro; di distrazione congenita e di affidabile puntualità; di stillicidio quotidiano da sensibilità esasperata e di candida incoscienza; di gentiluomo cortese e di adolescente beffardo; e poi ancora di tanti, imprevedibili Carro. Questi giovani artisti avranno perso il testimone enciclopedico di una buona fetta di Novecento mai ufficializzata nei testi; avranno perso l’ultimo artista sregolato e dolente, inadeguato a vivere conformemente al comune modo di vivere, come l’albatros di Baudelaire che per le lunghe ali arranca goffo e impacciato sulla terra. L’artista manager, tutto agenda, palmare, cellulare, public relations, diplomazia, aderenze, partito di potere, spingeva Carro allo stupore prima e agl’improperi a catinelle dopo. Carro o del quotidiano litigio con la vita: insofferente agli obblighi e alle consuetudini sociali, signorile nell’intimo e trasandato nelle esteriorità, scontroso e tenero fino alle lacrime, fertile nei progetti e rinunciatario alle occasioni. Raramente transfuga dai confini di Caràn, conosceva ogni fenomeno di questo mondo e poteva ininterrottamente parlarne per ore. Uomo difficile, sempre in difesa, roso dal dubbio, in perenne ricerca di certezze, in continuo e ravvicinato alterco con Dio, Carro a mio parere è stato il più dotato della sua generazione tanto nella mano quanto, suo malgrado, in quell’intelligenza critica che lo tormentava con autoanalisi lesioniste e sottigliezze ai più inapprezzabili. Avesse avuto l’innocente coraggio di Giovannoni! In questo momento l’imbarazzo dei tanti, troppi ricordi costipati nel gran libro degli aneddoti. Ma a questo pittoresco libro voglio allegare due pagine amare: il portale di S. Maria e gli ultimi incontri in ospedale.
Il portale di S. Maria, da solo, occupa un capitolo lungo quanto la trentennale gestazione dell’opera. La plastilina che inesorabilmente si deteriorava, ammuffiva e impregnava lo studio di odore acre, svettando al di sopra dei traballanti cumuli di libri, disegni, riviste mai scartate, lettere mai aperte, giornali pieni di appunti, boccette di china vuote, colori induriti, bronzetti sommersi, premi o inviti disattesi, statue, rilievi, tavoloni tarlati, armature arrugginite, attrezzi antichi, oggetti pregiati e altro di difficile identificazione- sedimenti di una lunga vita- ricominciò un giorno a tirare calci nel ventre dello studio inaridito dall’attesa: il Vescovo Sanguineti gli chiedeva di terminare l’opera e di adattarla alla nuova destinazione. Quest’uomo portato ad ingarbugliare più che a spianare, a valutarsi “gneco” più che energico, ad avvertire inestricabili rovine in un centimetro che non torna o in una polliciata trita, si sentì di botto impantanato tra sentimenti snervanti e contrari. L’aspirazione di vedere finalmente collocato quell’ingombrante peso sulla coscienza s’invalidava contro l’incubo di squalificare il proprio mito con un lavoro fuori tempo. Conseguenza prevista: tormenti, maledizioni, sospetti. Il portale fece intensificare le mie visite allo studio. Il tempo, se mi aveva spuntato l’impertinenza del giovane tutto domande che invadeva lo studio-eremo, continuava a conferirmi l’ingrata prerogativa di provocare, ad ogni visita, un morso su un orgoglio che veniva da lontano. Artista di antica pasta, modellata sull’altera dignità dei Carmassi, dei Del Santo e dei Magli, non avrebbe retto, da uno molto più giovane, non solo la rasoiata di un giudizio supponente ma anche il semplice consiglio. Un grande bronzo al centro della propria città, però, recava angosce ancora più soffocanti e la lettura senza falsi riguardi di una terza persona poteva essere sì umiliante al suo decoro di maìstro ma anche conveniente e orientativa. E allora i nostri incontri davanti al portale finivano col consueto epilogo della presunta mortificazione ma anche con l’imperativo, maledetto, di fare. In quegli incontri avrei voluto lì, dietro a noi, le tante persone che ritengono che l’arte si fruisca con un “mi piace e non mi piace”, “mi dice qualcosa o non mi dice niente”. Tiravamo una radiografia critica sulla plastilina, poi sul gesso, sfogliando pagina per pagina tutto il grande libro delle regole applicabili a quel tipo di scultura. Dal capitolo della composizione a quelli dell’impostazione, della costruzione, della modellazione e via giù fino all’ultimo e più importante: quello delle deroghe, della sconfessione delle regole appena appurate, della licenza poetica. Spassionatamente l’opera era denudata e computata. E Carro, uomo già avanti negli anni, da sempre vittima dell’indolenza, dopo il teatrino degli improperi e dell’invocazione della morte liberatrice, mai avrebbe applicato alla scultura quell’ ”a m’en fò assé” che invece applicava alle fatue regole sociali: piegava sé stesso e ricominciava da capo intere parti solo per lanciare una parte di sè oltre il proprio tempo: spostava ogni giorno la personale montagna per far girare con più solidità il sedere del cavallo o per ripulire dal trito la figura del papa buono e “pansòn”.
Poi i pochi incontri notturni all’ospedale. Carro che riemergeva dal materasso e dalle lenzuola chiedendo con voce lontana e roca che giorno è e rianimandosi progressivamente all’argomento dell’arte. E a vederlo lì, in quel letto, la vita sembrava essere stata solo un’irrequieta cavalcata per raggiungere questo traguardo di immobilità. La voce impastata prendeva velocità nei ricordi di occasioni eluse, di artisti finalmente capiti, di lunghi colpi del palmo della mano sulla creta molle, del candore di una pennellata dimessa e opaca. E poi i saluti amari e l’afflizione senza soluzione di chi vede consumarsi giorno dopo giorno gli ultimi brandelli di futuro. Contro la parete disadorna della stanza scorreva il Carro sempre coperto oltre il necessario, con il nastrino blù per cravatta e l’ombrello, con quelle tre o quattro parole speciali che incastrate in modo speciale disegnavano compiute immagini verbali. E poi Carro che si scaglia contro il poliziotto che non gli chiede i documenti; che investe un monaco in treno perché sta pensando a Giordano Bruno e che si abbatte per una parola di speranza nel successivo scontro del tutto immaginato; che imposta le lezioni di Plastica nell’improvvisazione giornaliera e che, solo lui, è il confessore rincorso dai “patrisietti” e dalle “patrisiette” sgomenti per i loro grandi piccoli dilemmi; che legge e rilegge “quer casso” di Proust e “quer casso” di Joice, idolatrati e detestati per aver detto quasi tutto; che disorienta gli interlocutori per i troppi rivoli che si dipartono incessantemente da un torrente di parole in piena che non giunge mai al termine; che in posa da violinista manda in quel paese, tra ripetuti scusi scusi, gli adulatori e gli enfatici che odia; che salta dalla collera al rimpianto al faceto, vecchio ragazzo irridente; che, nascosto tra la gente, tiene in imbarazzante sospensione cerimonia e autorità all’inaugurazione delle porte di S. Maria; che ha imparato il vocabolario dotto dalla grande letteratura e il vocabolario aspro sui ponti “de legno e de filòn” dei muratori di una volta, dove ogni bestemmia era una burbera raccomandazione a Dio; che quotidianamente si trascina il confronto perdente con un padre efficiente e concreto; che è accondiscendente vittima di uno studio che gli ha lasciato troppo poco spazio per quella scultura che ormai non si può più fare; che ha temuto per tutta la vita quella malattia e quella morte apparse, in fondo, non poi tanto nere.

Fabrizio MISMAS



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