Sezione - Recensioni
1 Ottobre 2016. E' morto all'età di 81 anni Walter Coggio,
pittore spezzino. Un passato da attore in gioventù, inizia la sua carriera
artistica sviluppando un percorso originale di ricerca creativa, che nasce
dall'istintiva confidenza con la china, il carboncino, il colore. Espone
inizialmente sul territorio di origine, ma ben presto si afferma in importanti
iniziative nazionali, con incursioni anche all'estero. Dal 1965 partecipa ad
eventi di primo piano, abbinando sempre la ricerca dell'approfondimento
culturale ai dibattiti, alle esposizioni, agli incontri con grandi nomi
dell'arte, con oltre 50 mostre personali in Italia e in Europa. Importantissimo
per lui l'incontro col maestro Armando Pizzinato, grazie al quale ha
approfondito la sua formazione anche a livello di linguaggio e di tecnica. Fra
le frequentazioni artistiche, quella con il regista Mario Soldati, con il quale
ha avuto anche un rapporto personale di amicizia, il poeta Paolo Bertolani, e
molti altri. Ha vissuto a lungo a Lerici, sue opere figurano oggi in
prestigiose collezioni internazionali, private, e nelle raccolte di arte
contemporanea di istituzioni pubbliche e private. Se ne va un uomo colto, un
personaggio della storia del nostro territorio, padre di Sondra, giornalista
del Secolo XIX.
Opera di WALTER COGGIO |
Nel cuore
della Spezia, nel silenzio appartato del suo studio, lontano dal chiasso e
dall’effimero delle mode, Walter Coggio ha dedicato per tanti anni il suo tempo
ad inseguire un sogno di bellezza. L’incontro con il bello non è stato altro
per lui che la forma più concreta e profonda di conoscenza, una forma immediata
che avviene per esperienza diretta e sta all’origine della sua ricerca
artistica. A chi gli ha obiettato che la bellezza è un’illusione che allontana
dalla realtà, Coggio ha risposto che da tanto tempo ha accettato la sfida di
rappresentare la realtà “de-formandola” per coglierne l’essenza.
Spinto da una forte necessità interiore, la pittura gli è necessaria come il mangiare, il parlare, lo stare in silenzio... Il suo modo di concepire l’arte è legato alla capacità di comunicare emozioni che nascono dai ricordi (cor- cordis, “cuore”): un paesaggio marino, un incontro, una conversazione che suscita interesse, la visione di una donna, il ricordo di una sera... Un’opera esprime qualcosa quando la sua contemplazione evoca, attraverso associazioni, una serie di simboli che le danno un senso. Nella pittura di Coggio ogni immagine porta con sé una carica emotiva legata all’esperienza fisica più che logica, al senso più che al significato.
Il Novecento, il cosiddetto “secolo breve”, è un secolo “diabolico” (dia-ballein) che getta “scompiglio e disordine”, come la musica dodecafonica di Schoenberg. In ambito musicale, infatti, si realizza la più imponente rottura formale col passato. Ma anche l’arte pittorica sente la necessità di un superamento dei parametri dell’estetica tradizionale. La scomposizione delle immagini è identificata come l’azione liberatrice dell’io compositivo che necessita di allontanarsi dai fantasmi della riproduzione realistica, dalla resa prospettica e dalla spazialità volumetrica. Il lavoro iconico del pittore volta le spalle ai parametri tradizionali per sottrarsi volontariamente alle lusinghe del “figuralismo”. Wassily Kandinsky, nel libro Lo spirituale nell’arte, tenta di costruire una teoria dell’armonia in pittura, analizzando l’effetto che i colori esercitano sullo spettatore. “La nostra armonia è formata da una lotta dei toni, dall’equilibrio perduto, dal venir meno dei principi, da inattesi rulli di tamburo, da grandi interrogativi, da aspirazioni apparentemente incoerenti, catene e legami spezzati, contrasti e contraddizioni”.
Questa condizione si riflette nell’arte, che ricerca la realtà autentica attraverso la dissoluzione della figura. Nei quadri di Walter Coggio i soggetti sono scomposti, la loro identità è riflessa, spezzata, non appartiene alla figura rappresentata, ma a chi la guarda e la ricostruisce. Il cuore dell’arte non è negli oggetti, ma è nel nostro sguardo, nel nostro modo di percepirli. Gli oggetti servono a costringerci a rientrare in noi e a cogliere in noi quelle infinite possibilità che sono latenti, ma che l’arte ha il compito di risvegliare. Dinanzi alle sue tele, abbiamo la sensazione di entrare nei continenti del sogno e si spalancano le porte della percezione. Si succedono effluvi gassosi, reperti, strumenti musicali, figure femminili. Tessere di un linguaggio artistico che lo hanno affascinato e che lo guidano nei sentieri di un viaggio che si rinnova ogni giorno con stupore.
Nei suoi quadri non vi è mai assenza di disciplina: ogni pennellata è governata da una grande e sperimentata perizia tecnica. Salvatore Dalì nel Diario di un genio invita i pittori a dipingere come gli antichi: “poi fate come volete - sarete sempre rispettati”. Perché solo dentro la prigione del rigore i sogni acquistano consistenza e, dopo aver conosciuto le norme del mestiere, l’artista può deformare le figure e alterare le fisionomie. Dal dialogo armonico tra l’equilibrio del mestiere e il disequilibrio dell’invenzione nasce l’opera d’arte.
Coggio nel suo lungo itinerario artistico ha sperimentato il linguaggio della grande tradizione pittorica, che presenta infinite difficoltà e si fonda sulla severa disciplina. Le sue ricerche hanno abbracciato i periodi più rilevanti nel mondo dell’arte: rimane affascinato particolarmente dall’opera di Masaccio, Michelangelo, Caravaggio, Rembrant, Goya, Velasquez che divengono i suoi miti. La sua produzione è passata attraverso la ritrattistica e la rappresentazione religiosa. Opera importante nel campo degli affreschi è la commissione di interventi nella Chiesa di San Francesco, Piano di Conca, a Massarosa.
Sempre più si fa consapevole nella mente di Coggio del potere dell’immagine nella nostra civiltà. È l’immagine colorata che diventa superiore ad ogni parola, ad ogni suono, ad ogni ascolto, ad ogni silenzio. Ludwig Wittgenstein scrive: “Se ci domandano il significato delle parole rosso, blu, nero, bianco, noi possiamo mostrare immediatamente alcune cose che hanno quei colori. Ma ci è impossibile spiegare il significato di quelle parole”. Il colore è uno degli aspetti più misteriosi della nostra realtà. Le api sono eccitate da certi colori, gli uccelli notturni conoscono tutte le sfumature del grigio, il cane ha i suoi colori, l’uomo ne ha altri.
Lo studio di Cezanne gli apre i confini dell’arte contemporanea ed in particolare della filosofia cubista. L’approfondimento dell’opera di Picasso e Braque, e quindi Leger, Kandinsky, Klee lo conduce all’esperienza post-cubistica e, soprattutto, a Bacon che tanto inciderà nella sua formazione culturale. Dagli anni Settanta frequenta uno dei grandi maestri dell’arte contemporanea Armando Pizzinato, la cui conoscenza incide profondamente nella sua formazione anche a livello di tecnica. Coggio inizia a dipingere le idee e gli stati d’animo che rivivono nella forza dei colori. Natura come nudi, paesaggi, fiori: ecco i soggetti del pittore spezzino, quando lascia qualsiasi riferimento descrittivo e fa sì che il colore si stratifichi e crei un’architettura organica e anche inorganica. Talvolta le stesse figure sembrano paesaggi che si mischiano e si confondono con la terra. Così non si arriva mai a capire dove cominciano le une e dove finiscono gli altri. Proprio agli anni Settanta Coggio fa risalire la prima stagione felice della sua tavolozza, considerando semplici esercitazioni i lavori precedenti. Per anni, infatti, s’era guardato intorno con un’attenzione da uomo e artista straordinario: delicatissimo come i suoi nudi, le sue figure sacre, i suoi ritratti che esprimono l’incanto della pittura della giovinezza.
Ponendo al centro una sua concezione del vedere, Coggio presenta una costellazione di temi e prospettive che sviluppano una ricerca compiuta e originale. La sua pittura si illumina di una luce del tutto inedita, mentre l’estetica si trasforma in una vera e propria “logica della sensazione”. La sua opera risulta così contraddistinta da valenze simboliche del tutto personali, ricche di allusioni musicali e paesaggistiche, ed è sostenuta da un’eccezionale perizia esecutiva e da una profonda partecipazione emotiva. Coggio esprime il sentimento interiore dell’esistere, individuale e intimo, che lo spinge a un’espressione forte e intensa, che rappresenta il tratto specifico dell’uomo moderno. La sua interpretazione, carica del sentimento della vita, risulta molto più vera di qualsiasi rappresentazione realistica e tocca in profondità la sensibilità più intima dell’osservatore.
Coggio capta i sussurri, gli echi, i mormorii del paesaggio. Con insistenza si libera da qualsiasi retorica e fa trionfare la bellezza delle cose. Scandagliando il paesaggio, Coggio ne aumenta la tensione: attrae e affascina. La “Chiesa della Salute” nella luminosità adriatica è intrisa di dorature veneziane. Da qui una sorta di pittura solidificata, stratificata (spesso l’accumulo della materia nasce dai ripensamenti: il colore si secca e l’artista, non potendo raschiarlo, vi dipinge sopra), i cui paesaggi - per lo più marini - diventano promemoria di qualcosa che sembra risalire all’infanzia e che è rimasto sospeso nell’aria, in attesa di essere soddisfatto. “Voglia di mare” si lega al ricordo di Lerici col suo castello d’impronta pisana a guardia del golfo e le intense luminosità che salgono dal porto con le sue imbarcazioni. La foce della Magra, materna e fluviale, cola colori e frescura nell’abbraccio silenzioso del mare. Paesaggi e figure restano sempre i grandi temi della sua poetica, ma, caso straordinario, nel rapporto fra luce e materia, ci si accorge che la luce viene proprio dall’interno della materia stessa, sottoposta a varie metamorfosi. Ogni pennellata deriva dall’osservazione nella quale Coggio trova una grande carica energetica che si manifesta in macchie di colore. Così la sua pittura acquista una solarità classica e piena che si apre ai grandi orizzonti di ascolto e armonia.
Certamente, quando Coggio dice che l’arte deve suscitare emozioni, riconosce già che la pittura non ha il compito di imitare o peggio ancora duplicare la realtà. L’arte, al di là di qualsiasi dubbio, risale verso qualcosa che è più originario rispetto alla realtà. Questo qualche cosa di più originario fa riferimento alla capacità di gettare luce su quella realtà che ci passa davanti agli occhi, che è opaca, che in fondo non sappiamo vedere, alla quale siamo abituati, e che l’arte ci invita a guardare altrimenti. La radice dell’emozione artistica è proprio là dove noi improvvisamente guardiamo le cose, come prima non le guardavamo e come se le vedessimo per la prima volta. Per questo il cuore dell’arte non è negli oggetti, ma nel nostro modo di percepirli. Gli oggetti servono a costringerci a cogliere in noi quelle infinite possibilità che sono latenti.
Così Walter Coggio riporta la tecnica verso la sua lontana origine poetica, per andare incontro a quel mondo in cui ha sempre continuato a immergersi per catturare il flusso della vita. Quando l’attenzione del suo sguardo si trasforma in una attenzione del pensiero, lo scopo dell’arte si realizza. La bellezza in questo modo ci spinge a spalancare stupiti i sensi per accogliere ciò che è “nuovo”: e nuovo non è ciò che la moda ha decretato, nuovo è ciò che, senza tradire la bellezza passata, sa mostrare ora e qui un pezzo di mondo sotto una luce più intensa. Solo in quella luce vitale ciò che sembra ovvio smette di esserlo: la pellicola abitudinaria o falsamente artistica stesa sulla realtà si rompe e l’immagine vive la sua vera vita.
Spinto da una forte necessità interiore, la pittura gli è necessaria come il mangiare, il parlare, lo stare in silenzio... Il suo modo di concepire l’arte è legato alla capacità di comunicare emozioni che nascono dai ricordi (cor- cordis, “cuore”): un paesaggio marino, un incontro, una conversazione che suscita interesse, la visione di una donna, il ricordo di una sera... Un’opera esprime qualcosa quando la sua contemplazione evoca, attraverso associazioni, una serie di simboli che le danno un senso. Nella pittura di Coggio ogni immagine porta con sé una carica emotiva legata all’esperienza fisica più che logica, al senso più che al significato.
Il Novecento, il cosiddetto “secolo breve”, è un secolo “diabolico” (dia-ballein) che getta “scompiglio e disordine”, come la musica dodecafonica di Schoenberg. In ambito musicale, infatti, si realizza la più imponente rottura formale col passato. Ma anche l’arte pittorica sente la necessità di un superamento dei parametri dell’estetica tradizionale. La scomposizione delle immagini è identificata come l’azione liberatrice dell’io compositivo che necessita di allontanarsi dai fantasmi della riproduzione realistica, dalla resa prospettica e dalla spazialità volumetrica. Il lavoro iconico del pittore volta le spalle ai parametri tradizionali per sottrarsi volontariamente alle lusinghe del “figuralismo”. Wassily Kandinsky, nel libro Lo spirituale nell’arte, tenta di costruire una teoria dell’armonia in pittura, analizzando l’effetto che i colori esercitano sullo spettatore. “La nostra armonia è formata da una lotta dei toni, dall’equilibrio perduto, dal venir meno dei principi, da inattesi rulli di tamburo, da grandi interrogativi, da aspirazioni apparentemente incoerenti, catene e legami spezzati, contrasti e contraddizioni”.
Questa condizione si riflette nell’arte, che ricerca la realtà autentica attraverso la dissoluzione della figura. Nei quadri di Walter Coggio i soggetti sono scomposti, la loro identità è riflessa, spezzata, non appartiene alla figura rappresentata, ma a chi la guarda e la ricostruisce. Il cuore dell’arte non è negli oggetti, ma è nel nostro sguardo, nel nostro modo di percepirli. Gli oggetti servono a costringerci a rientrare in noi e a cogliere in noi quelle infinite possibilità che sono latenti, ma che l’arte ha il compito di risvegliare. Dinanzi alle sue tele, abbiamo la sensazione di entrare nei continenti del sogno e si spalancano le porte della percezione. Si succedono effluvi gassosi, reperti, strumenti musicali, figure femminili. Tessere di un linguaggio artistico che lo hanno affascinato e che lo guidano nei sentieri di un viaggio che si rinnova ogni giorno con stupore.
Nei suoi quadri non vi è mai assenza di disciplina: ogni pennellata è governata da una grande e sperimentata perizia tecnica. Salvatore Dalì nel Diario di un genio invita i pittori a dipingere come gli antichi: “poi fate come volete - sarete sempre rispettati”. Perché solo dentro la prigione del rigore i sogni acquistano consistenza e, dopo aver conosciuto le norme del mestiere, l’artista può deformare le figure e alterare le fisionomie. Dal dialogo armonico tra l’equilibrio del mestiere e il disequilibrio dell’invenzione nasce l’opera d’arte.
Coggio nel suo lungo itinerario artistico ha sperimentato il linguaggio della grande tradizione pittorica, che presenta infinite difficoltà e si fonda sulla severa disciplina. Le sue ricerche hanno abbracciato i periodi più rilevanti nel mondo dell’arte: rimane affascinato particolarmente dall’opera di Masaccio, Michelangelo, Caravaggio, Rembrant, Goya, Velasquez che divengono i suoi miti. La sua produzione è passata attraverso la ritrattistica e la rappresentazione religiosa. Opera importante nel campo degli affreschi è la commissione di interventi nella Chiesa di San Francesco, Piano di Conca, a Massarosa.
Sempre più si fa consapevole nella mente di Coggio del potere dell’immagine nella nostra civiltà. È l’immagine colorata che diventa superiore ad ogni parola, ad ogni suono, ad ogni ascolto, ad ogni silenzio. Ludwig Wittgenstein scrive: “Se ci domandano il significato delle parole rosso, blu, nero, bianco, noi possiamo mostrare immediatamente alcune cose che hanno quei colori. Ma ci è impossibile spiegare il significato di quelle parole”. Il colore è uno degli aspetti più misteriosi della nostra realtà. Le api sono eccitate da certi colori, gli uccelli notturni conoscono tutte le sfumature del grigio, il cane ha i suoi colori, l’uomo ne ha altri.
Lo studio di Cezanne gli apre i confini dell’arte contemporanea ed in particolare della filosofia cubista. L’approfondimento dell’opera di Picasso e Braque, e quindi Leger, Kandinsky, Klee lo conduce all’esperienza post-cubistica e, soprattutto, a Bacon che tanto inciderà nella sua formazione culturale. Dagli anni Settanta frequenta uno dei grandi maestri dell’arte contemporanea Armando Pizzinato, la cui conoscenza incide profondamente nella sua formazione anche a livello di tecnica. Coggio inizia a dipingere le idee e gli stati d’animo che rivivono nella forza dei colori. Natura come nudi, paesaggi, fiori: ecco i soggetti del pittore spezzino, quando lascia qualsiasi riferimento descrittivo e fa sì che il colore si stratifichi e crei un’architettura organica e anche inorganica. Talvolta le stesse figure sembrano paesaggi che si mischiano e si confondono con la terra. Così non si arriva mai a capire dove cominciano le une e dove finiscono gli altri. Proprio agli anni Settanta Coggio fa risalire la prima stagione felice della sua tavolozza, considerando semplici esercitazioni i lavori precedenti. Per anni, infatti, s’era guardato intorno con un’attenzione da uomo e artista straordinario: delicatissimo come i suoi nudi, le sue figure sacre, i suoi ritratti che esprimono l’incanto della pittura della giovinezza.
Ponendo al centro una sua concezione del vedere, Coggio presenta una costellazione di temi e prospettive che sviluppano una ricerca compiuta e originale. La sua pittura si illumina di una luce del tutto inedita, mentre l’estetica si trasforma in una vera e propria “logica della sensazione”. La sua opera risulta così contraddistinta da valenze simboliche del tutto personali, ricche di allusioni musicali e paesaggistiche, ed è sostenuta da un’eccezionale perizia esecutiva e da una profonda partecipazione emotiva. Coggio esprime il sentimento interiore dell’esistere, individuale e intimo, che lo spinge a un’espressione forte e intensa, che rappresenta il tratto specifico dell’uomo moderno. La sua interpretazione, carica del sentimento della vita, risulta molto più vera di qualsiasi rappresentazione realistica e tocca in profondità la sensibilità più intima dell’osservatore.
Coggio capta i sussurri, gli echi, i mormorii del paesaggio. Con insistenza si libera da qualsiasi retorica e fa trionfare la bellezza delle cose. Scandagliando il paesaggio, Coggio ne aumenta la tensione: attrae e affascina. La “Chiesa della Salute” nella luminosità adriatica è intrisa di dorature veneziane. Da qui una sorta di pittura solidificata, stratificata (spesso l’accumulo della materia nasce dai ripensamenti: il colore si secca e l’artista, non potendo raschiarlo, vi dipinge sopra), i cui paesaggi - per lo più marini - diventano promemoria di qualcosa che sembra risalire all’infanzia e che è rimasto sospeso nell’aria, in attesa di essere soddisfatto. “Voglia di mare” si lega al ricordo di Lerici col suo castello d’impronta pisana a guardia del golfo e le intense luminosità che salgono dal porto con le sue imbarcazioni. La foce della Magra, materna e fluviale, cola colori e frescura nell’abbraccio silenzioso del mare. Paesaggi e figure restano sempre i grandi temi della sua poetica, ma, caso straordinario, nel rapporto fra luce e materia, ci si accorge che la luce viene proprio dall’interno della materia stessa, sottoposta a varie metamorfosi. Ogni pennellata deriva dall’osservazione nella quale Coggio trova una grande carica energetica che si manifesta in macchie di colore. Così la sua pittura acquista una solarità classica e piena che si apre ai grandi orizzonti di ascolto e armonia.
Certamente, quando Coggio dice che l’arte deve suscitare emozioni, riconosce già che la pittura non ha il compito di imitare o peggio ancora duplicare la realtà. L’arte, al di là di qualsiasi dubbio, risale verso qualcosa che è più originario rispetto alla realtà. Questo qualche cosa di più originario fa riferimento alla capacità di gettare luce su quella realtà che ci passa davanti agli occhi, che è opaca, che in fondo non sappiamo vedere, alla quale siamo abituati, e che l’arte ci invita a guardare altrimenti. La radice dell’emozione artistica è proprio là dove noi improvvisamente guardiamo le cose, come prima non le guardavamo e come se le vedessimo per la prima volta. Per questo il cuore dell’arte non è negli oggetti, ma nel nostro modo di percepirli. Gli oggetti servono a costringerci a cogliere in noi quelle infinite possibilità che sono latenti.
Così Walter Coggio riporta la tecnica verso la sua lontana origine poetica, per andare incontro a quel mondo in cui ha sempre continuato a immergersi per catturare il flusso della vita. Quando l’attenzione del suo sguardo si trasforma in una attenzione del pensiero, lo scopo dell’arte si realizza. La bellezza in questo modo ci spinge a spalancare stupiti i sensi per accogliere ciò che è “nuovo”: e nuovo non è ciò che la moda ha decretato, nuovo è ciò che, senza tradire la bellezza passata, sa mostrare ora e qui un pezzo di mondo sotto una luce più intensa. Solo in quella luce vitale ciò che sembra ovvio smette di esserlo: la pellicola abitudinaria o falsamente artistica stesa sulla realtà si rompe e l’immagine vive la sua vera vita.
EDC
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