giovedì 8 novembre 2012

UN' ISOLA DI PREGHIERA NEL MONDO FEUDALE: IL MONASTERO DEL TINO - di ELIANA M. VECCHI

  
Conferenza del Direttore del Giornale Storico della Lunigiana:
Dott.ssa Eliana M. Vecchi
UNICUSANO-La Spezia 6 novembre 2012


L'isola del Tino e Tinetto
L’isola del Tino, parte dell’arcipelago di Porto Venere è dal 1997 Sito Patrimonio dell’Umanità e dal 2001 fa parte del Parco Naturale Regionale di Porto Venere. È soggetta alla Marina Militare dopo esser stata, nella seconda metà dell’Ottocento, coinvolta nella riorganizzazione delle difese costiere a seguito della costruzione dell’Arsenale Militare alla Spezia e tuttora conserva una batteria costiera, caserme, gallerie difensive, costruite soprattutto fra il 1915 e la seconda guerra mondiale, che hanno convissuto con l’attività estrattiva delle cave di portoro, attiva fino alla metà degli anni ottanta del secolo scorso.
Tuttavia, nei secoli centrali del medioevo, il Tino fu un’isola di preghiera, con una piccola abazia che ospitava una ridotta famiglia di monaci, dotata di un esteso patrimonio fondiario.
La costituzione di un cenobio sull’isola, poco dopo la metà del Mille, venne a saldare le nuove istanze di rinnovamento della Chiesa, che promuovevano anche i movimenti monastici, con il ricordo e la devozione per l’anacoreta che vi sarebbe vissuto e morto in solitudine, Venerio (+ ca 630).
SAN VENERIO "LEGENDA DEL SANTO
La vita dell’eremita Venerio si sarebbe svolta tra VI e VII secolo nell’isola del Tino (in latino Tyrus), la seconda per dimensioni delle isole del golfo della Spezia, che nel Medioevo prendeva però nome dal centro marittimo allora più importante, Porto Venere. La tradizione agiografica o legenda del santo si fissò per iscritto, in versioni con alcune varianti, soltanto molto più tardi, fra la fine del X- inizi XI secolo in codici liturgici reggiani, fatto del resto non insolito poiché la vita solitaria condotta dagli eremiti, lontani quasi sempre dalla quotidiana convivenza, e quindi dalla testimonianza di altri uomini, e la decadenza della pratica della scrittura nella società civile dell’epoca rendevano difficile una cronachistica contemporanea agli eventi. Nei secoli seguenti, in particolare nel XVIII, la tradizione ecclesiastica, opera di religiosi locali o reggiani, aggiunse particolari, anche favolosi, e precisò le date della sua vita: lo si disse contemporaneo del pontefice Gregorio Magno (590-604), degli imperatori Maurizio e Foca (602-610), e si ascrisse la sua morte, avvenuta il 13 settembre, all’anno 630.
Di famiglia nobile, nativo forse della vicina isola Palmaria, dopo essersi perfezionato negli studi ed esser entrato in una comunità monastica (le fonti lo definiscono sempre monacus et sacerdos), che oggi si ritiene potrebbe anche identificarsi con quella, all’epoca storicamente esistente, di Porto Venere, scelse poi di dedicarsi a Dio in completo isolamento, sul modello dell’anacoretismo orientale, ma eleggendo come sede un’isola, appunto il Tino, come era già avvenuto per l’eremitismo insulare della Toscana, della Liguria e Provenza. Queste fughe su isolotti inospitali e desertici divenuti i deserti occidentali, la "solitudine infinita" come li definisce San Gerolamo, attraenti proprio per le difficoltà di sopravvivenza e per la forte influenza delle esperienze ascetiche e di vita contemplativa dei Padri del deserto e degli eremiti egiziani e orientali, sono lo specchio anche della crisi di valori di una società, stretta fra complessità politiche, forti diseguaglianze economiche e pericolosità.
Dei miracoli che sono riferiti a Venerio, è stato osservato che alcuni si riportano a temi che si incontrano in vite di santi tipici di un ambiente marinaro, quali la resurrezione del giovane figlio di un suo fedele, caduto dalla barca e annegato nel mare, quella di un giovane marinaio, pure annegato, il suscitare e poi domare il vento ed il mare in tempesta. Il più eclatante sembra tendere ad esaltare la perfezione della vita monastica, soprattutto eremitica, nei confronti di quella del clero secolare: Venerio caccia, su richiesta del suo stesso vescovo e del popolo, un dragone che esce dagli scogli per terrorizzare la popolazione di Luni e far naufragare le navi, semplicemente ammonendolo nel nome del Signore. Il tema del santo sauroctono conosce una grande fortuna, specialmente a partire dal IV secolo, e il simbolo del drago, attraverso i testi sacri e quelli letterari agiografici, conosce un suo sviluppo concettuale nell'immaginario culturale- religioso con sfumature diverse, talvolta anche un po' ambigue, pur nel significato di base preponderante di rappresentazione del male, del grande Nemico. Il suo ammansimento potrebbe esser un riferimento all’attività di cristianizzazione, recupero all’ortodossia e civilizzazione del popolo tipica del periodo di Gregorio Magno.
Un nucleo forse aggiunto in un secondo tempo alla legenda, all’epoca della rinnovata riconquista del Mediterraneo settentrionale, narra di una sua fuga verso la Corsica, più remota e desertica del Tino, per sfuggire all’eccessiva invadenza dei fedeli. Molto posteriore al periodo medievale è la tradizione che Venerio accendesse fuochi nella notte per segnalare alle navi gli scogli pericolosi e avesse inventato la vela latina.
La morte dell’eremita sarebbe poi avvenuta, ancora una volta in solitudine, nella sua isola, dove era ritornato per volontà divina, sapendo di essere prossimo alla fine. Il corpo sarebbe stato sepolto da mani angeliche e in seguito un vescovo, Lucio, guidato da Dio, lo avrebbe rinvenuto ancora intatto e con evidenti segni di santità. Avrebbe posto le sacre reliquie in una chiesa, appositamente costruita, avendola affidata a ministri religiosi, facendosi così tutore e sostenitore del culto nell’isola.
Alcuni episodi nella legenda raccontano infine miracolose punizioni di prepotenze o di peccati commessi perfino dagli stessi monaci addetti al servizio sacro, e di assalti e distruzioni alla chiesa e alle vicine strutture monastiche da parte di Saraceni e Normanni, così che, in epoca carolingia, verso la metà del sec. IX, le reliquie sarebbero state portate, per motivi di sicurezza, ma certo anche per il desiderio di santi pegni di protezione, a Reggio Emilia, nel monastero benedettino extra-urbano di San Prospero: da lì la devozione popolare a San Venerio venne sempre più radicandosi nel tessuto cittadino, tanto da portare al santo eremita il titolo di compatrono della città emiliana, insieme con l’indigeno san Prospero.

Il Chiostro del monastero di San Venerio
( fine del sec XI )
IL CULTO DI SAN VENERIO ED IL TINO
Per quanto piccola parte delle reliquie del santo venisse nel corso di secoli concessa anche ad altre chiese reggiane che ne avevano richiesto insistentemente l’affidamento, il corpo di san Venerio ha riposato, fino ai nostri giorni, nella chiesa di San Pietro e Prospero di Reggio. Ma nel 1956 il desiderio di ristabilire nel golfo della Spezia il culto, appannatosi e scomparso in epoca moderna, e di poter almeno nell’anniversario della morte consentire alla popolazione il pellegrinaggio al luogo santo, con l’accesso all’isola del Tino, dalla metà dell’Ottocento inserita nell’ottica di fortificazione della piazzaforte arsenalizia spezzina, poi demanializzata e perciò affidata alla Marina Militare, indusse alla fondazione della Pia Unione "Pro Insula Tyro", sotto l’egida pastorale del vescovo diocesano, mons. Stella.
La nascita di un movimento di pietà religiosa produsse importanti risultati anche in campo storico- archeologico, poiché condusse al restauro delle superstiti strutture monastiche (1956; 1957) e alle parallele campagne di scavo nell’isola, che misero in luce l’attuale area archeologica (1961), affidata alla "Pro Insula Tyro".. Ma soprattutto il coronamento di questa azione fu il ritorno di una parte delle sacre reliquie nella diocesi spezzina.
Nel 1959 il pontefice Giovanni XXIII nominava San Venerio patrono del golfo della Spezia ( due anni più tardi anche patrono dei fanalisti civili e militari d’Italia) e rettificava i confini della diocesi della Spezia- Sarzana- Brugnato, includendovi oltre al Tino e alle altre due isole, Palmaria e Tinetto, Porto Venere, dal 1133-1161 in diocesi di Genova e dal 1892 in diocesi di Chiavari.
Nel settembre del 1960, la Sede Apostolica consentiva la restituzione dei resti scheletrici della testa di Venerio, che, conservata separata dal corpo in un reliquiario, dopo la rogazione di un solenne atto notarile fra i presuli lunense e reggiano, veniva alle presenze delle più alte autorità religiose riportata nell’isola milletrecentotrenta anni dopo la sua morte.
Custodito dapprima nella chiesa di San Venerio di Migliarina, oggi nella cattedrale, il reliquiario viene trasportato con una processione di barche nell’isola del Tino una volta l’anno, subito prima della festività del 13 settembre.
Nel 1989, per decisione del comitato " Pro Insula Tyro " e per decreto dell’allora vescovo, mons. Siro Silvestri, è stato compiuto, in concomitanza di un consolidamento conservativo, lo studio antropologico dei resti scheletrici di san Venerio custoditi nel reliquiario, ad opera dei dott. D. Ronco e G. Fornaciari, con la direzione scientifica del prof. F. Mallegni.
I resti, incompleti e non in connessione, consistono nel facciale superiore, nella mandibola e in parte del cranio neurale. Nonostante le difficoltà di adeguate valutazioni per lo stato e l’incompletezza dei resti, è stato concluso che il reperto osteologico esaminato appartiene a un individuo di sesso maschile, morto in età adulta, matura-senile.
Sono state evidenziate alcune patologie, quali la deviazione del setto nasale; cribrosità ossee indicanti una situazione di stress dovuto a fattori anemici oppure a carenze vitaminiche o nutrizionali subite in età giovanile per un’anemia congenita o acquisita, poi guarita; perdita in vita di numerosi denti dell’arcata inferiore e superiore, particolarmente i molari; presenza di ascessi e granulomi gengivali. La relazione ha rilevato come alcuni esiti siano consimili a quelli evidenziati in altre indagini condotte sui resti di anacoreti a seguito di privazioni alimentari.
Più recentemente Matteo Borrini ha ricostruito il volto del santo secondo i sistemi medico- anatomici e antropologici delle Scienze forensi e lo ha riprodotto in una maschera posta sul cranio.

Capitello marmoreo con leone ed elementi vegetali

L'AREA ARCHEOLOGICA. 
La primitiva chiesa fondata dal vescovo lunense sulla sepoltura del santo è stata identificata dagli studiosi con i resti di un edificio religioso messo in luce al Tino dagli scavi condotti da Leopoldo Cimaschi nel 1961, edificio databile al VII-VIII secolo.
I resti della chiesa consistono in alcuni corsi della struttura absidale, ascritta al primo altomedioevo per la tipologia e tecnica muraria, e per i materiali ceramici ritrovati negli stati sottostanti la fondazione negli ultimi saggi di scavo (frammenti di anfore africane). Essi hanno una tessitura abbastanza regolare, con reimpieghi di laterizi romani; la chiesa era voltata, come si è potuto desumere dai blocchi della volta crollati e giacenti sul livello pavimentale.
Fra la fine del IX e il X secolo ebbe un ampliamento con una seconda abside, e rimase in uso fino a tutta la prima metà dell’XI, divenendo il prototipo locale della planimetria delle biabsidate, presente in epoche diverse nel Medio Oriente, nell’area africana, nelle isole di Sardegna e Corsica, nella fascia delle Prealpi. Questa tipologia, legata probabilmente ad un culto martiriale (un’abside per le funzioni religiose, una per le reliquie), ebbe una grande fortuna dopo il Mille e la si incontra in altre chiese della Lunigiana, le più antiche gravitanti proprio sul golfo o nella limitrofa distrettuazione castrense di Vezzano (pievi come San Prospero di Corongiola, basiliche funerarie come San Venerio di Antoniano, oggi di Migliarina, oltre la basilica sulla piccola isola del Tinetto).
Nella seconda metà del Mille un edificio religioso monastico a sviluppo longitudinale venne a sovrapporsi sul corpo della chiesa più antica, sfidando la natura franosa degli strati geologici, che si frazionano in micro frane. Con la sua stretta facciata a finestratura, la tecnica muraria del paramento detta dello " sbozzatore " ( l’abside, forse franata in mare, non esiste più dal sec. XIX), è anello di congiunzione con il più maturo San Pietro della fase I ( fine XI secolo) di Porto Venere e con altre costruzioni religiose sulle colline dell’area orientale.
Alla metà del secolo XI, infatti, la istituzione della potente abbazia benedettina del Tino, dedicata a San Venerio e Santa Maria, aveva dato una forte autonomia politica all’isola, divenuta la base di un insediamento religioso che aveva anche una sua notevole valenza economica, poiché accorpava, a seguito di donazioni signorili e acquisti, un amplissimo patrimonio fondiario dislocato in Lunigiana interna, Liguria e Corsica con appendici anche nell’area padana, ma soprattutto nel golfo della Spezia.
A partire dal 1050, e particolarmente fra 1056 e 1057 i marchesi Alberto Azzo, Alberto II e Guido della famiglia obertenga del ramo Estense e di Massa Corsica, avevano donato una cospicua parte del loro patrimonio nel golfo al monastero, che stava sorgendo sull’isola del Tino col loro patrocinio. Pur non differenziando i propri comportamenti da quelli di famiglie dello stesso rango nobiliare, negli stessi periodi storici ( donazioni, ma anche abusi, liti, usurpazioni di beni appartenuti ad enti ecclesiastici), data l’estensione e la dispersione del loro patrimonio nell’Italia centrosettentrionale, i marchesi avevano intrattenuto, nel corso delle diverse generazioni, rapporti di beneficenza con molti monasteri (fra cui Cluny, Santa Fiora nell’ aretino, Nonantola, Fruttuaria, San Savino di Piacenza, San Siro e Santo Stefano di Genova), tutti però già esistenti e consolidati, e soprattutto posti in varie località preferibilmente al di fuori o comunque non nel cuore della Marca a loro affidata per ufficio, forse proprio talvolta per potenziare o promuovere il proprio insediamento nelle zone, o per semplici motivazioni di pietà e riscatto religioso, ma rare erano state le fondazioni familiari. È quello un momento storico particolare. Da un lato le dinastie a cui erano state affidate le strutture di controllo della Marca, Alemarici, Arduinici, da noi gli Obertenghi, andavano esaurendo la loro funzione. Lasciavano perciò spazio al sorgere di signorie territoriali, estremamente frazionate rispetto al potere marchionale, diremmo più locali, controllate da grandi possessori che si facevano domini loci, dagli eredi delle stesse dinastie marchionali, ed anche da enti ecclesiastici.
Dall’altro lato il grande sviluppo dell’ordo monastico in generale ( per la fiducia dei laici verso ecclesiastici non secolari, per il desiderio di lasciti in beneficio delle proprie anime, che trovavano una più sicura aderenza nei monasteri, per l’impulso che la Chiesa romana a partire dal papa Leone IX diede al recupero di patrimoni attraverso le istituzioni monastiche) agevolò anche nella parte occidentale e insulare del golfo la fioritura di una nuova istituzione benedettina, che veniva a ritessere un tessuto di cristianizzazione che aveva dato le più antiche testimonianze, almeno ad oggi, della diocesi (come la cappella sull’isola del Tinetto, databile al V sec). Era un’epoca, inoltre, in cui la navigazione mediterranea, e quindi, i commerci si svolgevano ancora, come dimostrano i frammenti di anfore africane rinvenuti sul Tino.
Gli Obertenghi riconosceranno il monastero, ma non lo sottoporranno al proprio controllo (per la nomina dell’abate, per rapporti speciali verso la famiglia). E’ però indubbio che, inizialmente, sia un santuario familiare, o meglio, un presidio spirituale. Poi il patronato passerà ai domini di Vezzano.
I marchesi tenevanno placiti, avevano un seguito di fideles: ed infatti troveremo fra i testimoni degli atti di donazione molti nomi di membri di casate, anche di quelle poi divenute assai note, come i Lavagna. Alcuni – specie i più vicini territorialmente al neo monastero - sono spinti a seguire l’esempio dei signori. E’ stato detto che tali monasteri sono il doppio della società: solo i liberi con possessi e potere possono divenire benefattori, quindi oggetto delle preghiere dei monaci.
Più tardi troveremo donazioni anche da membri di quella che oggi chiameremmo media o alta borghesia: talvolta, però, sono prestiti dissimulati o donazioni con retrocessione del bene per un modico affitto da parte di chi necessita di una protezione, economica o politico sociale ( pensiamo oggi agli appartamenti venduti e poi affittati dall’antico proprietario).
I monaci (con ogni probabilità una famiglia piccolissima fin dalle origini, nel Due- Trecento troviamo due-tre monaci oltre l’abate) ricevono anche servi ed affittano i beni fondiari. Non devono lavorare, "hanno chi lavorerà per loro", devono pregare e casomai porre all’occasione i loro buoni uffici, materiali e spirituali.
Nel 1062 il papa Alessandro II riconobbe con un privilegio il monastero ed i suoi possessi, con ciò che in quei luoghi era stato acquisito o lo sarà nel futuro, fra cui ha risalto l’espressione medietatem trium insularum Palmatii et Tyri maioris et Tiri minoris. Parte di queste isole era stata donata dagli Obertenghi al monastero piacentino di Vigolo del Marchese, anch’esso fondazione obertenga.
Tutta l’estrema parte occidentale, come del resto Porto Venere, faceva parte della diocesi lunense, di cui aveva ab antiquo la considerazione: il monastero di epoca bizantina di Porto Venere era stato all’attenzione del papa Gregorio Magno, che inviò a correggerlo il fido vescovo lunense Venanzio, suo stimato corrispondente.
I monaci potevano contare nel secolo XI anche sull’appoggio della Sede romana, che aveva concesso loro l’esenzione dall’ordinario diocesano lunense solo per l’aspetto economico, ma la necessità del controllo totale delle isole fu così forte da indurli a falsificazioni sul privilegio papale e a creazione di falsi atti pubblici, che consegnarono loro la piena autorità su tutte e tre le isole (proprietatem e non medietatem).e addirittura l’esenzione dall’autorità vescovile.
Oltre il loro valore intrinseco per l’agricoltura e pesca, le isole erano il pegno del controllo di un territorio che divenne nel secolo XII cruciale anche per la dominazione del Tirreno e dei mari di Corsica e di Sardegna, dove Pisa e Genova si stavano misurando. Genova aveva consolidato il suo dominio di terraferma, rinunciato ad un predominio sulle coste provenzali occitaniche, stipulato un trattato di compromesso con Venezia. Il levante diveniva un punto di misurazione di forze.
Per questo motivo con la creazione dell’arcivescovato di Genova (1133, pochi decenni prima dell’acquisto di Porto Venere) che doveva bilanciare nella visione politica del pontefice Innocenzo II quella di Pisa, anche in Corsica, il monastero del Tino e la stessa Porto Venere furono sottoposti all’autorità dell’ordinario genovese: la distrettuazione civile e quella religiosa provavano a coincidere.
Un complesso conventuale si venne affiancando nella seconda metà del secolo XI alla chiesa, addossandovisi. Oltre al refettorio, oggi quasi tutto ricostruito dal restauro, un chiostrino a destra della chiesa, funzionale pur nello spazio angusto, innalza su pilastri e colonnine, anche di marmo romano di reimpiego, archi a doppia ghiera, al di sopra dei quali è una decorazione ad archetti pensili e intrecciati, dei quali lo stile normanno era stato antesignano. Rimangono due soli lati. E’ avvicinabile al chiostro di San Fruttuoso, della fine dell’XI secolo ( la ghiera del pozzo è di restauro). L’arredo si segnala per un capitello composito in marmo lunense decorato con leoncino passante, dalla coda attorcigliata e lanceolata e con motivi floreali, molto vicini ai capitelli in pietra del San Pietro I e collegabile alla scultura protoromanica genovese.
L’insieme è completato, verso il mare, da un recinto quadrangolare, alcuni muri dei quali sono stati in passato letti come " romani", una cisterna per l’acqua, tombe altomedievali che si insinuano sotto il chiostro e tombe di età gotica fra cui quella del famoso giurista pisano Ranieri da Parlascio, ad arcosolio, infine da un rustico frantoio con macina in pietra.

Il Reliquiario di San Venerio
esposto durante la celebrazione
del 13 settembre sull'Isola del Tino

LA DECADENZA DEL MONASTERO INSULARE
Fino al secolo XIV l’abazia di San Venerio, grazie alla proprietà del vasto patrimonio fondiario, ebbe potere e floridezza, con il Trecento si manifestò anche qui quella crisi che coinvolse tutto il mondo benedettino tanto che il monastero, ormai quasi deserto di confratelli, venne affidato da papa Eugenio IV alla congregazione Olivetana, in particolare a San Gerolamo in Quarto di Genova (1432), che costruì la chiesetta ancor oggi officiata. Qualche decennio dopo l'ente si ritirava nell'interno del seno delle Grazie, dove era stato costruito un nuovo monastero, in cui la devozione a Maria andava soppiantando l'antico culto dell'eremita.
Nell’ ottobre 1798 veniva ordinata dal Direttorio della Repubblica Ligure la soppressione dei conventi di regolari e monache, e poco prima di Natale i frati presenti nel monastero degli olivetani delle Grazie, nel comune di Panigaglia, cantone di Porto Venere, Giurisdizione del Golfo di Venere, erano costretti al trasloco dei pochi beni personali, abbandonando così, oltre la chiesa fino a quel momento da loro officiata, i locali del convento con la biblioteca e l’archivio monastico, nonché il governo delle numerose proprietà fondiarie.
L'isola, già in parte coltivata, diveniva in breve di privati, specie di quelli che si erano schierati subito a Porto Venere con la nuova autorità francese, prima attraverso contratti enfiteutici perpetui, poi con la concessione della piena proprietà. Nel 1834 veniva costruito dal Regno Sabaudo un faro, illuminato a olio. Demanializzati dal 1864 e affidati alla Marina Militare, già alla fine dell'Ottocento i resti del complesso monastico versavano in stato di abbandono: i rovi avevano invaso le rovine, dipinte da Agostino Fossati e visitate, riconosciute e ammirate dal D'Andrade, il cartario monastico, con la documentazione degli onori e beni posseduti, beni ormai divenuti di privati, era stato portato via dai Francesi per il grande Archivio Centrale dell'Impero voluto da Napoleone e, dopo la Restaurazione, diviso fra archivi di Stato italiani, la biblioteca del convento e i beni mobili erano dispersi.
La costruzione di imponenti strutture difensive, come la batteria costiera Ronco, fece il resto.
Dopo il ritorno di parte delle reliquie del santo da Reggio Emilia, negli anni ‘50 i restauri, condotti dalla Soprintendenza ai Monumenti della Liguria, consentivano il recupero sia della chiesa e del chiostro protoromanico sia del refettorio medievale con la sottostante quattrocentesca chiesetta olivetana, di nuovo officiata, mentre scavi archeologici condotti dall'Istituto Internazionale di Studi Liguri mettevano in luce i resti più antichi. Negli anni '80 la Soprintendenza Archeologica della Liguria apriva altri settori di scavo, nel quadro di una rilettura di tutte le fonti archeologiche, di un accurato rilievo del sopravvissuto e della sistemazione dell'Antiquarium, procedendo a precisazioni cronologiche e tipologiche dei resti e dei materiali, i cui risultati sono stati esposti quindi in convegni e in numerose pubblicazioni.
Ma il risultato più importante è la rivitalizzazione di un culto nato alle radici della nostra storia cristiana.


Dott.ssa Eliana M. Vecchi
Laureata in Storia Romana, ha conseguito i diplomi di specializzazione in Archeologia Medievale e in Archivistica, Paleografia e Diplomatica. È attualmente presidente della Sezione Lunense dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri, fa parte della Commissione scientifica dell’Istituto stesso ed è direttore della rivista “Giornale Storico della Lunigiana e del Territorio Lucense”, che si stampa dal 1909. È inoltre Accademico degli Imperfetti (Fivizzano), membro cooptato della “Pro Insula Tyro”, membro onorario dell’Istituto di Studi sui Conti di Lavagna e della Società Dante Alighieri, presidente dell’Associazione Culturale “Il Prione”, nonché membro della giuria del Premio letterario internazionale “Il Prione” (La Spezia) e della giuria del “Premio Lunigiana Storica per la migliore tesi di laurea” (Licciana Nardi). Come già ispettore onorario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria ha segnalato importanti siti, quali la necropoli protostorica di Ameglia e l’insediamento dell’età del ferro del sito di San Venerio (SP), contribuito al recupero della statua stele di Calice, diretto scavi e partecipato a progetti di ricerca di archeologia cristiana, particolarmente sul monastero del Tino e i suoi possessi. Ha collaborato con Augusto C. Ambrosi all’allestimento del Museo delle Statue Stele di Pontremoli (1975), oggi a Lui intitolato, ed al Museo diocesano di Pontremoli, sotto la direzione di Nicola Gallo. Svolge attività di ricerca e formazione con Università, enti locali e numerose organizzazioni culturali, ha contribuito all'organizzazione di mostre e convegni storico-archeologici di carattere regionale, nazionale ed internazionale, fra cui si ricordano le giornate di studio dedicate al papa Niccolò V nei suoi rapporti con il papato e gli stati regionali del Quattrocento, di cui ha curato gli atti, i due convegni, con relatori anche internazionali, nelle celebrazioni per i 700 anni della venuta di Dante in Lunigiana e, recentemente di quello  dedicato alla devozione alla Santa Croce in Lunigiana, nonché membro della commissione scientifica del Progetto europeo Interreg III Medocc “Castrum”. È autrice di oltre 50 saggi sull’architettura, scultura ed epigrafia altomedievale e romanica lunigianese, su strutture viarie e difensive medioevali e rinascimentali, su istituzioni ecclesiastiche e personaggi della Lunigiana medievale; ha edito fondi archivistici nobiliari privati.






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