lunedì 26 novembre 2012

LA TRADIZIONE DEI LIBRAI PONTREMOLESI - di Giuseppe Benelli Presidente dell'Accademia Lunigianese di Scienze " G. Capellini " - La Spezia


Giuseppe Benelli
Presidente dell'Accademia Lunigianese
di Scienze " Giovanni Capellini " La Spezia
Nel «Corriere Aprano» del 1962, Giovanni Petronilli ricorda alla Spezia i librai di Montereggio: «Sono fratello e sorella. […] Discendono   da   una   ormai storica stirpe di librai che, originaria di tre paesi contigui sperduti nell’alto appennino allargò le sue propaggini un po’ ovunque. Nonostante il trasferimento da tante de­cine d’anni nella più vicina città di mare, vestono ancora come i loro avi, che trascor­revano la vita in case povere e affumicate come quella, ri­dotta ad un’unica stanza, cui i due si sono, forse da sem­pre, assoggettati». «A un passo da casa hanno una bancarella con libri usa­ti, logori scaduti, ebdomada­ri: roba acquistata da stu­denti, da pensionati o da chi ha bisogno di qualche spic­ciolo, e rivenduta con un margine di guadagno suffi­ciente alle loro scarse esigen­ze»[1].
Mentre gli ambulanti d’ogni parte d’Italia vendevano di paese in paese chincaglierie, monili per ornamento alle ragazze, madonnine, santi e corone del rosario, i “pontremolesi” portavano nella loro gerla di cascinale in cascinale soprattutto libri[2]. «Questa è la terra dove si nasce librai. — scrive nel 1952 Oriana Fallaci — A Montereggio e a Parana è difficile che la gente sappia leggere e scrivere; non ci sono che pecore e castagni e si vive mangiando formaggio e polenta dolce, nell’attesa che l’inverno diventi primavera e l’estate autunno, così da un anno all’altro. Eppure ogni casa di Montereggio è piena di libri intonsi; e ad ogni stagione c’è un pastore che lascia il villaggio e va per il mondo a fare il libraio. La storia dei pastori librai della Lunigiana si perde nel tempo»[3].
Dall’alta val di Magra, terra di confine tra più regioni, sono partiti tanti lunigianesi che, trascinati dal fascino dell’avventura, hanno percorso le strade del mondo come venditori ambulanti di libri. Alfredo Panzini nel suo Dizionario Moderno (1905), alla voce “Pontremolese” scrive: «Da Pontremoli. Al plurale, venditori ambulanti di libri. Sotto prezzo di copertina. Eroi del libro? Con discrezione». «Aggiungiamo — annota Guglielmo Zucconi — che in molte zone della Toscana, della Liguria e dell’Emilia, “pontremolese” è comunque sinonimo di merciaio, venditore ambulante. Pontremoli dunque, per essere il maggiore centro della zona, diocesi col Granduca Pietro Leopoldo, già sede di sottoprefettura, ha esercitato dall’età napoleonica in poi, la sua forza di attrazione, sui centri minori dove sono nati i librai e anche ad essi, come agli altri ambulanti ha dato il patronimico»[4].
Il contributo della Lunigiana alla stampa è ampiamente riconosciuto. Sarzana affonda la sua storia nell’umanesimo di papa Niccolò V, Tommaso Parentucelli, che ha portato a Roma la passione per la civiltà classica. I manoscritti greci e latini da lui annotati rivelano che il legame con la tradizione dell’antico municipium di Luni è profondo e determinante per porre le basi della Biblioteca Vaticana e inaugurare la grande stagione del Rinascimento italiano. Proprio l’amico di Niccolò V, Nicodemo Trincadini da Pontremoli, ambasciatore a Roma per conto degli Sforza di Milano, raccoglie una stupenda e rara biblioteca nel palazzo-torre di Pontremoli. Accanto ai preziosi manoscritti, circa duecento, compaiono cento libri stampati “alla todesca”, gli incunaboli, “i libri in culla”[5]. A Sarzana la biblioteca dei Campofregoso possiede un codice di Tito Livio già appartenuto a Petrarca e l’umanista Antonio Ivani possiede una ricca raccolta di libri[6].
Scrive Edoardo Maria Filipponi: «Ormai non c’è più dubbio: l’inizio dell’attività libraria in Lunigiana ha una data precisa. È il 16 marzo 1458 quando Franchino di Giovanni da Culiano ottiene da Petrizolo An­ziani di Pontremoli un prestito di 27 lire, 7 soldi e 4 denari genovesi per l’acquisto di una partita di mercé necessaria al primo “mercatum tomorum” della storia pontremolese.[7] Nasce così, a nemmeno due anni dall’invenzione della stampa a caratteri mobili, un’attività che si perpetua inin­terrottamente da oltre cinque secoli. Un primato invidiabile che, al di là di ogni altra esperienza a livello europeo, testimonia l’importanza commerciale di una piazza come Pontremoli»[8].
In Italia, la stampa a caratteri mobili giunge nel 1464 ad opera di Corrado da Sweinheim e di Arnaldo Pannartz, due chierici tedeschi chiamati a Subiaco dal cardinale Torquemada, sollecitato dai risultati del Gutenberg. E subito il nuovo modo di diffondere la cultura non passa inosservato in val di Magra dove, accanto all’esperienza commerciale si sviluppa quella editoriale e tipografica. In Lunigiana la stampa fa il proprio ingresso nel 1471, quando Jacopo da Fivizzano, prima da solo, poi in unione con il figlio Alessandro e il prete Battista, mette alle stampe al­meno una decina di titoli, dapprima in Fivizzano e poi in Venezia, dove trasferirà i torchi di lì a tre anni. A Fivizzano escono le Bucoliche, le Georgiche e Eneide di Virgilio, il De officiis, il Lelio ed il Catone maggiore di Cicerone (1472), una Vita della Vergine Maria di Cornazzano (1473), le Satire di Giovenale (1473), la Congiura di Catina di Sallustio (1474)[9]. Il museo di Magonza annovera nella storia della stampa il contributo prezioso del Fivizzano. è infatti assodato che i libri stampati nell’officina di Jacopo da Fivizzano vedono l’impiego del carattere 106R, il primo realizzato in Italia[10]. Nel 1476 a Genova il medico Battista Riccardi di Aulla «costituisce una società tipografico-editrice, allo scopo di stampare e commercializzare breviari e evangelistari»[11]. Nel XV secolo la città di Lucca registra la presenza di maestri pubblici provenienti dalla Lunigiana, tra loro Michele Bagnone, stampatore che utilizza i caratteri tipografici di Jacopo da Fivizzano[12]. A Milano nel 1493 Sebastiano da Pontremoli realizza con Enrico Scinzenzeler la stampa in caratteri greci dei Logoi di Isocrate, «forse il più bel libro greco stampato in Italia»[13].
Che a Pontremoli esista un vasto commercio librario è documentato anche dal testamento dello stampatore e mercante Erasmo Viotti. I Viotti hanno bottega a Parma, dove stampano opere pregevoli, tra cui ricordiamo il bel volume degli Statuta ac Decreta Pontremuli, edito nel 1571 da Seth Viotti. Nel testamento, rogato il 5 novembre 1611, figura un inventario di «Libri, quali sono a Pontremoli lasciati per occasion della fiera». L’elenco è costituito da circa 450 libri, forse un fondo di magazzino, opere per lo più giuridiche, sacre, filosofiche, storiche e di varia umanità. I Viotti, divenuti stampatori ducali e camerali dei Farnese, usufruiscono nella loro attività di particolari privilegi per la vendita e la stampa dei libri. Nel testamento di Erasmo, a favore di Anteo Marani, designato suo erede con l’obbligo di assumere il cognome Viotti, si fa esplicito riferimento alla fiera pontremolese, un avvenimento di una certa notorietà che doveva richiamare gente anche dai paesi lontani[14].
Se negli archivi comunali di Pontremoli troviamo il nome di qualche libraio, come nel Libro delle sentenze del 1685 «contro Giovan Antonio q. Gio. Bertuccj libraro», è alla fine del Settecento che “pontremolese” diventa sinonimo di merciaio girovago che, tra le varie mercanzie che offre in vendita, presenta anche almanacchi per i contadini, libri devozionali, immagini sacre[15]. Il fattore decisivo è dato dallo sviluppo del mercato librario dovuto al movimento culturale dell’Illuminismo europeo. Alla fine del Settecento, con la politica culturale napoleonica, si fanno sentire gli effetti dell’istruzione elementare obbligatoria, perentoriamente diffusa in tutti i dipartimenti. Nel corso dell’Ottocento il fenomeno dei librai ambulanti si fa vistoso per il contributo dei venditori di Montereggio, Parana, Cerro, Pozzo, Busatica del comune di Mulazzo.
Nel fascicolo dei passaporti rilasciati nel 1812 a Pontremoli compaiono i primi nomi delle future dinastie di librai: Maucci, Ghelfi, Fogola, Lorenzelli, Lazzarelli, Tarantola, Bertoni, Bardotti e Zanarelli. Non si qualificano ancora «librai», ma «venditori di pietre e altre coserelle» per evitare controlli e noie. Nel Lombardo-Veneto le autorità periferiche sono così poco abituate a vedere circolare venditori di libri che, nei rari casi in cui l’incontrano, li arrestano nel dubbio di avere di fronte pericolosi spacciatori di merci proibite in possesso di patenti false. Ancora nel 1833 la polizia arresta nel Bergamasco un «banchettista», sorpreso in possesso di alcuni libri proibiti, tra cui un Machiavelli, l’Adone di Marino e l’immancabile Pulcella di Voltaire[16]. In un atto che riguarda Giovanni Fogola di Montereggio, arrestato a Castelnuovo Monti in Garfagnana nel settembre 1854, si legge «l’inventario, eseguito nelle carceri, dei libri che il Fogola stesso possiede».
Il luogo di vendita preferito erano le piazze centrali delle città, dove stendevano i libri sui muriccioli e sui marciapiedi. In seguito, aumentando la portata della loro merce, la gerla è sostituita dal carretto che si trasforma sulle piazze in bancarella ricca di libri di ogni genere. «Quando avevano soldi abbastanza per potersi comprare un carretto col ciuco, — scrive Oriana Fallaci — mandavano a chiamare la moglie, rimasta al villaggio, oppure sposavano la figliola di un altro libraio; e riprendevano a vagare. Per strada, tra una tappa e l’altra nascevano i figlioli. Li mettevano dentro alle ceste, fra i libri del carretto, perché crescessero respirando l’aria della carta stampata e si facessero le ossa fra i titoli dei capolavori»[17].
La vendita ambulante, fatta esponendo la merce estratta dalle gerle o su carretti tirati a mano o trainati da animali, crea problemi ai librai. Ben presto, per ovviare ai tanti inconvenienti, i librai pontremolesi si affidano ai banchi stabili come punti di vendita nei luoghi più centrali delle città. La vendita all’aperto, con l’esposizione di tutta la merce e i costi ridotti di esercizio, presenta grandi vantaggi rispetto ai negozi. I “bancarellai”, poveri di capitali e costretti a praticare i prezzi bassi, puntano sul passante frettoloso, cui offrono un tipo determinato di merce: stampe, calendari, libretti religiosi, romanzi e opere teatrali. Tutti prodotti che risentono meno della concorrenza dei grandi negozi. Scrive sempre la Fallaci: «Alla fine dell’Ottocento molti girovaghi pontremolesi avevano fatto un patrimonio. I loro figli andavano a vendere in carrozza ed avevano aperto notevoli Case Editrici. I meno fortunati possedevano almeno una bancarella fissa sotto i portici di qualche grande città. Da vecchi, cercavano un po’ di riposo, a quel modo. Ci pensavano i figli, cresciuti nelle ceste dei librai, a vagare per le montagne»[18].
Per i venditori ambulanti pontremolesi l’appuntamento in primavera era al passo della Cisa, che lungo l’antico itinerario della via Francigena divide la Lunigiana dalla Padania. Dopo il canto del Maggio, che a Montereggio si canta ancora oggi, si ritrovavano sul valico per mangiare tutti assieme e assegnare le piazze delle città dove andare a vendere, in modo da evitare l’inutile e dannosa concorrenza. Tra i prati, nella sacralità dei monti, si scambiavano le preziose informazioni per rifornirsi della merce da vendere e dove trovare editori di libri a buon prezzo. Difficile, infatti, era trovare dove comprare merce conveniente e adatta alle esigenze del loro commercio. L’ideale trovare dove acquistare i resti di magazzino coi pochi soldi ricavati dalla vendita delle castagne, del formaggio e delle foglie di gelso.
Una vita, quella dei nostri librai, piena di grandi sacrifici, ma anche di tante soddisfazioni per i risultati commerciali, i successi economici e i consensi culturali. «Non avevano confidenza con l’alfabeto, — scrive Oriana Fallaci ― ma “sentivano” quali libri era il caso di comprare e quali no: in virtù di un sesto senso che, dicono, è stato loro donato dal demonio in un’ora di benevolenza»[19]. Oltre agli almanacchi, utili a scandire la vita dei campi, i “pontremolesi” acquistavano nell’Ottocento libri popolari come I reali di Francia, il Guerin Meschino, i Tre moschettieri, Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, le Poesie del Giusti, la Genoveffa, la Massima eterna e altri libri di preghiere, l’Orlando Furioso, la Gerusalemme Liberata, le Tragedie del Manzoni e perfino il Boccaccio. Con la gerla piena di libri, pietre da limare e altra merce, andavano per le campagne soprattutto del nord d’Italia a vendere con mille accorgimenti i libri ai contadini. «Aprivano per esempio una pagina qualsiasi dell’Orlando Furioso e cominciavano a declamare. Non leggevano, ma ripetevano le ottave che avevano sentito leggere da altri. I contadini, dopo essersi fatti giurare sulla Madonna dei Sette Rosari che lì dentro c’erano scritte proprio quelle belle parole, si decidevano a prendere il libro per non meno di dieci soldi»[20].
Molte delle librerie del nord e centro Italia sono state create dai “pontremolesi”. I loro nomi appartengono tutti ad uno stesso ceppo, in quanto imparentati fra loro, e tutti dopo aver svolto la vendita ambulante si sono fermati con le loro bancarelle e hanno aperto negozi nelle varie città del nord e centro Italia. I Rinfreschi a Bolzano, Piacenza, Pistoia, Genova e nel Canton Ticino; i Vannini a Parma, Acqui e Brescia; i Galleri a Bologna, Lucca, Pisa, Siena e Milano; i Ghelfi a Verona, Brescia, Padova, Vicenza, Venezia, Piacenza, Parma, Bologna, Ferrara, Rimini, Milano, Recoaro, Treviso, Ancona, Montecatini, Cattolica, Recanati, Orvieto e Vercelli; i Giovannacci a Parma, Piacenza, Como, Sondrio, Varese, Vercelli, Chiavenna, Domodossola, Casale Monferrato, Milano, Voghera, Biella, Alessandria e Courmayeur; i Bertoni a Piacenza, Parma, Voghera, Como, Domodossola, Mantova, Udine, Verona, Vicenza, Venezia e Genova; i Fogòla a Torino, Pescara, L’Aquila, Ancona, Sesto San Giovanni, Genova e Pisa; i Maucci alla Spezia, Genova, Sassari, Milano, Siena e Savona; i Lorenzelli a San Pellegrino, Brescia, Bergamo, Bra, Mantova e Cremona; i Giambiasi a Salsomaggiore, Massa, Como e Savona; i Tarantola alla Spezia, Modena, Parma, Ravenna, Padova, Piacenza, Treviso, Como, Venezia, Udine, Monza, Milano, Belluno, Teramo, Pescara, Bergamo, Brescia, Novi Ligure, Massa e Palermo; i Lazzarelli a Biella, Vercelli, Novara e Imperia; i Lodola a Savona, Massa e Salsomaggiore; i Pellegrini a Cuneo, Mantova e Verona; i Lorgna a Biella, Chiavenna e Acqui; i Cattoni in Francia e nell’Astigiano; i Verducchi a Ferrara; i Bizzarri a Legnano; i Caldi ad Asti; i Simonelli a Perugia; i Zanarelli a Ferrara e Lodi; i Giorgini in Piemonte e a Genova; i Bardotti in Francia e Toscana; i Mancini, i Paolazzi, i Tomasinelli, i Galeazzi e i Donnini in giro per il Piemonte; i Coselli, Orlandini, Micheloni, Tolozzi e Bardini a Genova, i Cattoni di Busatica nel secolo scorso svolgono la vendita ambulante nel nord d’Italia[21]. Questi uomini rappresentano gli antesignani del libro venduto a basso prezzo, accessibile ad ogni borsa, e costituiscono ancora oggi, nonostante le trasformazioni subìte dai loro discendenti, «una casta a parte, una schiatta superiore per intelligenza e attitudini peculiari»[22].
Alberto Vigevani, bibliofilo poeta romanziere, nelle sue memorie intitolate La febbre dei libri, scrive che quand’era ragazzo (Vigevani è nato a Milano nel 1918) vi erano case editrici «che stampavano apposta, su pessima carta, con caratteri usurati, in misere brossure, libri fuori diritti o in traduzioni trucemente scorrette — da Tolstoj a Dumas, da Casanova a Dostoevskij, a Dickens — per smerciarli attraverso le bancarelle che appartenevano tutte a pontremolesi». «Come i quasi conterranei lucchesi che giravano da ambulanti le terre più lontane, vendendo statuine, i pontremolesi si erano sparsi per l’Italia con le bancarelle. Erano spesso parenti: si chiamavano, e si chiamano, Tarantola, Fogola, Gandolfi, Ghelfi, Lorenzelli, Barbato. Spesso si univano per comprare al miglior prezzo fondi di magazzino. Dai loro lombi nacquero dinastie proprietarie di alcune tra le più affermate librerie nel centro delle grandi città»[23].
Dalla consapevolezza dell’importanza del fenomeno dei librai ambulanti ha origine nell’agosto del 1952 il Premio Bancarella. Al primo raduno dei librai pontremolesi sono presenti l’onorevole Giovanni Gronchi, l’editore Valentino Bompiani, Ernesta Cassola (la vedova di Luigi Campolonghi), Salvator Gotta, Perazzoli il segretario dell’Associazione Librai Ambulanti con posteggio fisso. Scrive la Fallaci: «Molti parlarono, ma il discorso impegnativo lo fece Gotta che, tra l’altro, disse un gran bene delle bancarelle. I librai stavano intorno, in piedi sotto i castagni, ad ascoltare con piglio competentissimo». L’indomani si barricano dentro il municipio di Pontremoli e fanno il solenne giuramento sotto il Campanone, la torre medievale fatta costruire da Castruccio Castracani degli Entelminelli. «Uno a un certo punto si alzò, alto e massiccio, con i baffoni all’umbertina, e disse: “Ed ora, amici, propongo un solenne giuramento: quello di ritrovarsi nel nostro paese, ogni anno, in un dato giorno, a questa stessa ora, finché Iddio ci conserva, e fare una bella mangiata”. Seguì un lungo silenzio; poi i librai alzarono lentamente all’altezza del viso la mano e giurarono»[24].
Così nasce il Premio Bancarella, l’unico premio letterario gestito esclusivamente dai librai. Nel ‘53 si conferisce il primo Bancarella a Hemingway con Il vecchio e il mare, anticipando per la prima volta il premio Nobel ; le altre due volte saranno con Pasternak, Il dottor Zivago, e con Singer, La famiglia Moscat. è un premio unico nel panorama dei premi letterari e per le sue origini umili rappresenta lo scacco della provincia contro i fasti delle capitali mondane dei riconoscimenti letterari. La proclamazione avviene in piazza della Repubblica a Pontremoli, ai piedi della torre medievale di Cacciaguerra che è simbolo di pace come deve essere la vera letteratura. Tanti sono i nomi dell’editoria e della letteratura che sono venuti al Bancarella: Bompiani, Feltrinelli, Mursia, Leonardo Mondadori, Rusconi, Vallecchi, Crovi, Berto, Bevilacqua, Biagi, Cassola, Saviane, Fallaci, De Crescenzo, Zavoli, Goldoni, Chiara, Sgarbi, per citarne alcuni. Tra i tanti politici il più presente è stato Giovanni Spadolini[25].


Giuseppe Benelli


[1] G. Petronilli, Venditori di libri, «Il Corriere Aprano», 24 novembre 1962, p. 9.
[2] Cfr. G. Benelli, I librai pontremolesi tra storia e leggenda, «Memorie della Accademia Lunigianese di Scienze “Giovanni Capellini”», vol. LXXVII (2007), La Spezia 2008, pp. 101-132.
[3] O. Fallaci, Hanno nella valigia i cavalieri antichi, «Epoca», 6 settembre 1952.
[4] G. Zucconi, Il verde covo dei bancarellai, «L’illustrazione italiana», agosto 1960, pp. 69-70.
[5] Cfr. P. Ferrari, Una biblioteca pontremolese del secolo XV, «Giornale Storico della Lunigiana», IV (1912-13), pp. 48-55.
[6] Cfr. L. J. Bononi, Libri e destini. La cultura del libro in Lunigiana nel secondo millennio, Parte Prima, maria pacini fazzi editore, Lucca 2000, pp. 55-57.
[7] Arch. di Stato di Pontremoli, Imbreviature di ser Girolamo Belmesseri, Filza Al, c. 13 r., 16 mar­zo 1457 (1458 stile comune).
[8] E. M. Filipponi, Stampatori e librai, una storia lunga 545 anni, “Il Corriere Apuano”, 13 luglio 2002.
[9] L. J. Bononi, op. cit., pp. 55-57.
[10] Ibidem, pp. 69-79.
[11] Ibidem, p. 135.
[12] Ibidem, pp. 161-165.
[13] Ibidem, pp. 167-170.
[14] G. Bellotti, Una bancarella illustre: i Viotti a Pontremoli, «Corriere Apuano», 18 agosto 1956, p. 4; A. Ciavarella, Introduzione, in L. Bertocchi, M. Bertocchi, V. Bianchi (a cura), Le edizioni bodoniane nelle biblioteche pubbliche di Pontremoli. Catalogo, Artigianelli, Pontremoli 1977, p. 8.
[15] Libro delle sentenze, n. 1510, f. 170r, Sezione dell’Archivio di Stato di Pontremoli.
[16] M. Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Einaudi, Torino 1980, p.76.
[17] O. Fallaci, op. cit..
[18] Ibidem.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] Cfr. G. Benelli, I librai pontremolesi, «Almanacco pontremolese 1988», X, pp. 17-18.
[22] G. Petronilli, Lunigiana, Società Editrice Internazionale, Torino 1961, p. 241.
[23] A. Vigevani, La febbre dei libri. Memorie di un libraio bibliofilo, Sellerio, Palermo 2000, p. 24.
[24] O. Fallaci, op. cit.
[25] Cfr. G. Benelli, Quelle gerle piene di libri. Il Premio Bancarella nasce dalla vocazione culturale della Lunigiana, «Librai del Bancarella», Rivista della Fondazione Città del Libro, n. 0, Luglio 2004, pp. 7-11.

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