Sala Culturale Cargià –
Promozione Arte e Cultura 2013 – sezione Poesia
Ringrazio sentitamente la poetessa Donatella Zanello
che ha autorizzato la parziale pubblicazione nel Blog de “ Il
colore del mare”
Ezia Di Capua
- in copertina -
VITTORIO NOBILI
" Mareggiata a Moneglia ”-
|
Recentissima la pubblicazione presso
le Edizioni Cinque Terre di La
Spezia del libro “Il colore del mare” di Donatella Zanello,
con prefazione di Luigi Leonardi,
illustrazioni di Vittorio Nobili e note critiche di Annalisa Pellegrini. In
appendice al testo poetico viene pubblicato il racconto “La barca”, Premio
Speciale Giuria Il Prione 1993 come miglior racconto avente per tema “il mare”.
La silloge, scritta nel 2011, è stata presentata per la prima volta, come opera
inedita, al castello di San Terenzo il 22 Agosto 2012, nell’ambito della
settimana della cultura al Castello.
Scrive l’autrice nella sua nota
introduttiva: “Questo libro è ispirato alla vita straordinaria di un navigante
ed è la sintesi lirica delle sue memorie, narratemi nelle sere della mia
infanzia, incastonate nelle pieghe del tempo come un tesoro prezioso. Ascoltavo
affascinata questo suo raccontare. Il nonno aveva viaggiato sul mare per ben
quaranta anni e patito due guerre. Mi descriveva i luoghi dei suoi viaggi, gli
avvenimenti, gli usi e i costumi dei popoli, con un linguaggio carico di poesia
e di saggezza. Si esprimeva sia in lingua italiana che nel dialetto ligure di
Lerici e spesso usava espressioni in lingua francese e spagnola. Nelle sue
parole ho potuto raccogliere la testimonianza di un vissuto storico e sociale
che si iscrive nella tradizione di un territorio, la Liguria di Levante, in
modo particolare ed in generale nella più ampia tradizione marinaresca del
Mediterraneo, la cui chiave di lettura è una vera e propria mitologia del mare,
elemento-simbolo fondamentale, foriero di molteplici suggestioni ed
interpretazioni. Ho scritto queste pagine per un debito di amore e di rispetto.
La memoria è diventata poesia.”
IL COLORE DEL MARE
All’alba della mia vita
ho conosciuto il mare,
muovendo i primi passi
sulla riva, sui ciottoli
e la sabbia della spiaggia.
Ho imparato a conoscere
il tempo di domani
dalla direzione del vento,
distinguendo il futuro
nel colore cangiante
delle onde nella sera,
specchio del cielo riflesso.
Il colore del mare,
turchese e grigio e giada,
azzurro e bianco e blu,
rosso fuoco nel tramonto,
lo porto negli occhi
e nel cuore.
Nell’eternità.
“Il
colore del mare”
: quest’ultima lirica conclude e dà il titolo alla
silloge.
Il “colore del mare” rappresenta un
caleidoscopio di colori, un arcobaleno dalle innumerevoli sfumature.
E’ il colore della vita stessa,
colta, afferrata, attraversata nella sua perenne mutevolezza, nell’infinita
tendenza al rinnovamento ed alla rinascita spirituale, esercitata ed ottenuta
attraverso la memoria del passato. Il colore del mare è simbolicamente “il
colore degli occhi di Dio”, a testimoniare un afflato religioso, un teorema
estetico e stilistico che permea in sintesi lirica il contenuto ovvero la
narrazione – perché di “narrazione poetica” si tratta, sperimentata e messa in
atto nell’intera opera.
INDICE
DELLE ILLUSTRAZIONI
per gentile concessione
dell’Autore:
1)“Mareggiata a
Moneglia”,*V. Nobili, tecnica mista su
tela, Photo 3 D La Spezia
2)“Vele sotto al Castello”,
V. Nobili, tecnica mista su tela, Photo 3 D La Spezia
3)”Ossevando il Golfo”,
V.Nobili, tecnica mista su tela, Photo 3 D La Spezia
4)“La barca sul sentiero”,
V. Nobili, tecnica mista su tela, Photo 3 D La Spezia
5)“La barca del Casali”,V.
Nobili, tecnica mista su tela, Photo 3 D
La Spezia
*Vittorio
Nobili, nato nel 1935 a
La Spezia ,
importante pittore impressionista paesaggista. Nella sua galleria: Piccola Galleria del Golfo - La Spezia, riunisce una vasta collezione di tele
raffiguranti varie località del Golfo dei Poeti e della Lunigiana storica,
Gragnola in particolare. Nel 1985 è stato insignito dal Presidente Pertini
dell’onorificenza di Cavaliere al merito, per essersi distinto nel lavoro e per
i suoi impegni umanitari e di volontariato. Coordinatore delle squadre della
Pubblica Assistenza di La
Spezia , in prima linea, eroicamente, negli interventi della Protezione Civile
nelle calamità di Longarone nel 1963, Firenze 1966, Friuli 1965 e Irpinia 1980.
Vittorio Nobili si dedica intensamente alla pittura con attività instancabile e
vastissima produzione,ottenendo numerosi primi premi e riconoscimenti. Nei suoi
dipinti manifesta una malinconia
orgogliosa, una vera e propria“saudade” mediterranea, fornendo una preziosa
interpretazione artistica ed una straordinaria
testimonianza storica degli aspetti più caratteristici del territorio
della Provincia di La Spezia.
LE
MARACAS DELLA FELICITA’
A Cartagena de Indias,
sotto il sole,
tutti sembravano felici
anche se non avevano nulla.
Erano felici del mare e del sole
e di essere vivi, nient’altro.
Mi aggiravo curioso
nel variopinto mercato
e quell’uomo mi offrì
le “maracas”,
due piccoli
straordinari
strumenti musicali,
due zucche dipinte
con all’interno
l’allegra musica
di un pugno di semi
che agitati producono
un ritmo incalzante di vita.
Ne acquistai un paio
con pochi spiccioli.
Il venditore, scuro di pelle,
mi rivolse un sorriso splendente
e mi disse che quel giorno
mi ero comprato la felicità.
NOTE
CRITICHE di Annalisa Pellegrini
“Saggezza”
La voce
solitaria del marinaio che erra sul mare infinito e sterminato s’innalza
malinconica. La sua è una consapevolezza dettata dall’esperienza, il mondo gli
appare nella sua totalità ed immensità, quella stessa del pelago che lo
avvolge, lo circonda, distaccandolo dalla normalità. Ed è in questo spazio
infinito e allo stesso tempo infinitesimo che si muove il suo primo pensiero,
librandosi al di là del presente alla visione del futuro, che egli interpreta
attraverso segni naturali come un moderno augure.
“Ulisse (naufrago senza nome)”
Ulisse figura mitica e leggendaria di
eroe-soldato-marinaio il cui destino di eterno viaggiatore è segnato dal fato.
Il suo rocambolesco tornare alle origini lo avvicina alla figura del navigante
odierno con la sua ambizione di fare ritorno ma con la curiosità di restare
sulle onde per vedere nuovi mondi e scoprire nuovi miraggi. Il mare lo attrae
con una forza primigenia ed assoluta, lo lega a sé con una potenza viscerale e
cruda che talvolta lo immerge nella sua oscurità per farlo riemergere alla luce
di una nuova ed imprescindibile conoscenza. Solo gli abissi custodiscono la
verità, solo l’acqua ci lega alla vita. Quando la terra riaccoglie il naufrago
la sua esistenza è perduta, trascinata via dal suo stesso elemento, mentre la
sua anima si scopre solitaria nella contemplazione delle poche immagini
conosciute e rassicuranti.
“L’isola di Calipso”
Il mare che dà la vita e che la toglie è l’elemento
costitutivo di questa ninfa nella quale tutto richiama l’idea dell’acqua: dal
colore dei suoi occhi al suo corpo cangiante che rievoca le scaglie dei pesci.
La sua meravigliosa bellezza la rende desiderabile e attraente come una sirena
che provoca e richiama i marinai con il suo canto sublime. Paradigma di un
ritorno che è fine di vita, di un paradiso perduto, patria dei naviganti, la
cui esistenza è perenne ricerca della bellezza assoluta e il cui ultimo
desiderio è ricongiungersi a tale sacralità eterna ed infinita.
“Le radici del mare”
Una vita intera donata ai flutti, un’adolescenza
vissuta su di una nave, partendo dal gradino più basso. Scelta dettata dal
bisogno in un momento complicato ed infelice, in cui le malattie e le
privazioni costituiscono il normale scorrere dei giorni. Il dolore e la
sofferenza per una vita in cui occorre lottare per respirare, in cui accadono
tragedie che straziano l’anima ed il cuore. La nave è là che attende, affamata
di giovani, il mare spalanca le sue fauci per accogliere, per rapire.
E la nave bianca e solitaria tra il blu profondo
diventa casa, dimora, madre e padre, diventa famiglia e futuro, diventa patria
e fratello, diventa àncora e salvezza. Il mare insegna, il mare cresce, rende
uomini ed irrobustisce lo spirito. Il mare allevia tutti i dolori e allontana
dalla disperazione.
“La canzone del marinaio”
La solitudine, l’angoscia, la malinconia, le note
di un canto.
Un canto d’amore si erge sulle calme distese marine
e si confonde con il monotono rumore delle onde. Il paesaggio è fisso, perenne,
sempre uguale a se stesso. Rari i momenti di lieve cambiamento, quando l’occhio
incontra navi solitarie oltre l’orizzonte. Giorni sempre uguali conducono di
porto in porto, di città in città. Ma la terra che accoglie e rifiuta non
sembra essere diversa dalla lontananza, dall’abbandono vissuto costantemente.
Il navigante continua a cercare conforto negli occhi di persone che conoscono
solo la tristezza e continua a diffondere la sua amara melodia, che lo isola
ancor più e lo riporta tra le ombre di coloro che non ritorneranno. Struggente
nella sua semplicità, il poeta rende potente ed evidente l’immagine di
un’esistenza triste e ritirata, alla quale il marinaio sembra abituato e dalla
quale non può sfuggire. Il suo mare diviene una distesa di azzurra solitudine
sulla quale egli può solo diffondere le sue dolorose armonie.
“La donna amata”
L’amore attraverso gli occhi dell’innamorato. I
primi incontri timidi e fugaci, la promessa eterna di una felicità
irraggiungibile. Richiamo al dolce StilNovo, al Cavalcanti di “Voi che per gli
occhi mi passaste il cuore”. In uno stile narrativo lieve e sospeso viene
introdotta la figura di una donna – angelo, fonte di salvezza, le cui doti di
grande umanità e pazienza vengono esaltate attraverso l’immagine di un’attesa
lunga una vita, attesa che l’avvicina alla mitologica Penelope.
E ancora il mare che divide e allontana, che
sbiadisce i ricordi, che lega ancora di più a ciò che è distante relegandolo ad
un universo altro, raggiungibile solo a brevi tratti.
“Tempo di guerra”
Stile asciutto ed essenziale per questa lirica in
cui si coglie tutta la disperazione ed il progressivo disfacimento bellico. Il
mare qui sembra essere un porto sicuro, che rende distanti gli orrori. La
guerra è a terra, la guerra è altrove, le armi non nuotano sulle onde placide.
Ed è proprio l’avvicinarsi al continente che innesca la distruzione, dà origine
alla prigionia, riporta alle immagini
atroci ed amare della morte, della fame e della paura. Il contatto con la
morte stessa dà origine ad un attaccamento alla vita ancora più forte e
potente.
Gli ultimi versi richiamano l’Ungaretti di
“Veglia”.
“Mare Adriatico”
Racconto- resoconto dei difficili momenti vissuti
durante la Seconda
Guerra Mondiale. Contrasto tra un mondo sospeso come quello
dell’acqua, che attutisce tutti i rumori in un sostanziale isolamento, dato
dall’immagine essenziale della nave che scivola sulle lente pianure di un mare
calmo e chiaro e la realtà del dramma che imperversa in tutta Europa. Forti ed
indicative le immagini evocate dai versi 10-11, che, chiaramente, appaiono in
contrapposizione con i versi successivi ed in particolare con la chiusura della
lirica che, ancora una volta, sottolinea la perdita della monotona calma del
mare ed il profilarsi del terrore e del silenzio. Tutta la lirica si definisce
in un gioco di contrasti: il mare calmo e le sue lente pianure, il fucile
spianato e gli uomini armati, il silenzio dettato dal panico ed i cupi e sordi
rumori delle bombe.
“La terra degli uomini “
La civiltà vista come un qualcosa di negativo. La
forza e la ricerca di un ritorno all’istintività nel contatto con un elemento
dominante della natura, il mare, dell’uomo – animale che della natura è parte
integrante e sottoposto alle sue leggi.
Il mare come rappresentazione di un ancestrale
liquido amniotico che protegge e insieme distacca, allontana. Il mare come
immersione nella conoscenza umana primitiva e naturale, quando ancora l’uomo
non concepiva il male, quando erano soltanto gli impulsi a guidare l’agire.
L’ultima parte della lirica fa pensare alla chiusura di “Dieci Agosto” del
Pascoli: la terra raffigurata come un “atomo opaco del male” diviene qui
“l’inesorabile fardello del male”.
“Le maracas della felicità”
Un raggio di luce, un filo “d’allegrezza” colto tra
gente povera ma ricca. La gioia della vita trionfa in questa poesia tutta
solare e accesa, che dipinge un paesaggio festoso e variopinto. Sembra
suggerirci che la felicità si può raggiungere attraverso la semplicità,
attraverso le piccole cose, come le due piccole maracas il cui rumore
coinvolgente porta a sorridere di nuovo, allontanando per un attimo i dolori, le privazioni e le
sofferenze vissute.
“La fine del viaggio”
Il buio e grave momento della fine, vissuto tra
l’inconscio e il ricordo. La fine di un marinaio che, dopo un’intera vita
passata sul mare, tra i flutti, ora s’immerge di nuovo e si perde per sempre
negli abissi più profondi. E ad accompagnarlo in quest’ultimo viaggio non sono
più i compagni ma i genitori che lo cullano tra le braccia e gli sussurrano
preghiere. Calda questa impressione d’affetto, il conforto della fine tra i
gesti di persone amate e perdute da molto tempo, ora ritrovate.
Gli ultimi versi sono la metafora dell’approdo
all’aldilà: la luce accecante del cielo verso il quale si libra l’albatro
esprime un’idea di pace ritrovata e di immensa libertà.
*Annalisa
Pellegrini: laureata nel 2004
in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Pisa,
ha insegnato materie letterarie negli Istituti Professionali. Collabora a vario
titolo con le Amministrazioni Comunali di Sarzana e Santo Stefano Magra (La Spezia ). Attualmente
ricopre il ruolo di Bibliotecaria presso la Biblioteca Civica
“C. Arzelà” di Santo Stefano
Magra.
Quello che ho sempre conosciuto nella poesia di
Donatella Zanello, oltre al resto, è quel senso di decadentismo non tanto
pessimistico da sfociare in un sentimento di oscura negazione, quanto in un più
forte sentimento di umiltà. Umiltà che fa grandezza, conoscenza, saggezza, per
sentirsi coinvolta, anzi totalmente parte di tutto l’infinito, ovvero
dell’Essere. Poichè noi non siamo l’Essere, vale a dire appariamo e scompariamo
nell’Essere. Il poeta lo sa, e nello stesso tempo in cui si spaura
dell’infinità, ne ha anche una certa consapevolezza.
Tutto ciò viene fuori già dalla prima poesia di
questa silloge “Il colore del mare”, dove l’ultimo verso ne dà una sintesi
esauriente:
”un
punto infinitamente minuscolo
dentro tutto lo spazio infinito.”
E’ una visione cosciente della condizione umana, in
cui l’uomo tenta di governare la natura con sforzo titanico e sempre
velleitario. Donatella prende atto del nostro destino di morfemi, producendo
un’arte di perfetta contemplazione cosmica.
Contempla e parla dei colori o del colore che il
mare trasmette ai moti interiori, alla psiche, alle regioni indecifrabili
dell’io, all’invisibile ma che si manifesta in tutta la sua forza emotiva.
“Distese
di azzurra solitudine
e
grandi navi bianche
brillanti
come il diamante,
lucenti
come l’acciaio
….
E donne dallo sguardo nero.”
Così la solitudine è azzurra, che però non è
tristezza o malinconia; è rassicurante, protettrice, è l’essenza prima del
nostro esistere. In fondo ognuno di noi ha come unica certezza l’esistenza di
se stesso. E lo sguardo nero delle donne è sguardo di presagio, di vita
adombrata dall’incerto ritorno del marinaio. La storia dei marinai è avventura
di naufragi più che di approdi. E’ la storia di Ulisse. E’ il sapore dell’abbandono,
l’angoscia dell’ignoto, la paura dell’abisso. Andando per mare si ha come una
consapevolezza della perdita; per quell’enorme massa d’acqua si lasciano
affetti, case, abitudini. Viaggiare è attraversare ciò che non si conosce.
Viaggiare per mare è incontrarsi con la vastità, l’immenso, il silenzio.
Elementi che ti ammutoliscono, che ti mettono di fronte ad uno specchio vero:
quello che riflette la nostra pochezza. Ci spogliamo della nostra vana pretesa
di volontà di potenza.
“..
ed i flutti oscuri trascinare via
tutto ciò che mi apparteneva.”
Volendo andare nel profondo si potrebbe usare la
metafora del mare: lo si potrebbe elevare a simbolo di un dio ineluttabile, un
dio che trascina, rovina ogni arroganza di proprietà privata; ne può fare scempio
o dissolvere e risucchiare nei suoi gorghi tutta la storia e ogni civiltà.
E qui, con questi versi, Donatella intuisce la
verità: il nostro “essere-per-la-morte”
heideggeriano, uno pseudo nichilismo oggettivo e indifferente evocato da
millenni.
Nella poesia “Le
radici del mare” il poeta, forse più che nelle altre (ispirate dalle storie
e dalla vita del nonno materno, oltre a un suo congenito sentimento religioso
verso il mare) trova la sintesi congeniale della poetica espressa in questa
raccolta.
Ci sono le propaggini di una estetica che
successivamente troverà la sua forma. Uno stile estremo di poesia, ai confini
con una prosa che narra essenzialmente, ossia incastra le
parole i cui concetti non hanno bisogno di ulteriori dettagli. Allora non mi
può non venire alla mente Cesare Pavese, uno dei poeti massimi di
liriche-racconto. Un decadente trasformato in esistenzialista che con “Lavorare stanca” e “Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi” ha toccato l’empireo della
poesia.
Donatella Zanello ha colto l’importanza di questa
forma stilistica, passando da una sua maniera quasi metafisica - forse più
vicina a Montale – alla poesia-racconto, a quella dolce musicale malinconia del
verso de “I mari del Sud” di Pavese, al quale già si è avvicinata in
precedenza, per esempio con la poesia della silloge “Passiflora”, 2006,
Ibiskos: “I pini frustati dal vento”.
Da “Le radici del mare”
“Avevo
visto morire i miei fratelli
di
febbre spagnola
e
mia madre
piange
ancora
nel
mondo delle ombre.”
C’è melodia, un ritmo che scorre come su delle note
nei primi due versi. Poi gli altri tre mutano: sono più duri, gli accenti hanno
perso il canto, poiché nell’animo del poeta è aumentato il dolore. E’ la
poetica della prosa che sa decifrare ogni momento, ogni emozione, ogni sfumatura
esaltandola in tutti i suoi riflessi.
Questa uniformità si riscontra dunque in tutta la
poesia, a suggellare una scelta stilistica affine al contenuto. Un contenuto
che non è mai drammatico, né tragedia pur nei momenti di dolore e sofferenza.
E’ un riconoscere al destino la sua autorità. Non una rassegnazione, poiché la
lotta dell’uomo per la sopravvivenza è sempre costante; è come una specie di
dovere la lotta, sempre nel rispetto e timore della Natura. E qui si potrebbe
citare E.Hemingway, “Il vecchio e il mare”.
E quello della lotta contro la
Natura è un tema che Donatella ha già affrontato in “Labirinti”, nella poesia “Temporale estivo”.
Nel brano “La
donna amata” il tema dell’amore è sviluppato con la pulizia estrema di chi
rifugge la verbosità. L’essenziale. Perciò ne viene fuori un quadro di rara
concinnità. Due aggettivi esaltano in particolare questo quadro: “timida”, ovvero il pudore dei
sentimenti, la sobrietà e la discrezione dell’intimo, di qualcosa che non va
ostentato, che deve restare quasi segreto. Sembra come rivedere Renzo e Lucia;
un amore che ha del sacro, inviolabile.
“Crudele”,
la vecchiaia, la Natura
dalla quale non si può prescindere. Suona come un monito, un “metus” storico, universale.
Per quest’uomo che ha messo le sue radici nel mare,
è la terra che sembra andare alla deriva.
“La terra
degli uomini” ha memorie stanche, perché annoiata dalla sua stessa storia
belluina;
perché si porta dietro, sempre più pesante, il suo
inesorabile “fardello del male”.
Ecco, qui il poeta lambisce un punto di sgomento.
Si tratta dello stesso pessimismo storico di un Leopardi, un Pavese, ancor più
un Pascoli di “quell’atomo opaco del male”.
E’ un pessimismo che comunque riguarda la finitezza dell’uomo, o meglio dell’Ente, del suo apparire e scomparire ma
sempre nell’Essere, intendendo che
tutto è da sempre e per sempre, ossia “Ex
nihilo nihil fit”, contrariamente al pensiero filosofico occidentale.
Il poeta è sempre consapevole di certa natura umana. La coglie e la illumina con uno scatto di penna.
Un lampo che rivela inconfutabilmente la verità. E il contesto è la guerra. O
meglio, le due guerre.
Da “Mare Adriatico”:
“noi
eravamo soli con la nostra paura,
mentre
mangiavamo in silenzio,
tra
un’esplosione e l’altra”
Come si può dare più verismo a questa immagine?
Solitudine, paura, silenzio. Non sono forse gli
stessi elementi che questo marinaio trova andando per mare? Certo, ma non hanno
lo stesso peso.
Gli elementi del mare scaturiscono dalla sostanza
dell’infinito, dell’Essere del quale noi siamo parte, quel dio panteistico che
tutto assorbe. Sono l’essenza.
Solitudine, paura, silenzio che vengono dall’uomo
ci allontanano da quell’Essere, non vogliono farne parte. Sono il male. Sono
l’”assenza”.
“A Buenos
Aires” è un altro esempio pregevole di poesia-racconto. Tutto scorre come
cronaca, come una chiacchiera quotidiana, memorie trattenute a tutti i costi,
così che chiunque possa partecipare di gioie e di ambasce.
Un tema che ha nutrito la letteratura, fin dai
tempi di Epicuro, è la ricerca della felicità. Ed è un tema che anche Donatella
ha percorso. Anche in questa silloge. E resta sempre un adattamento alla Natura
e sempre legato ad una religiosità che deriva dalla propria essenza, quella di
contemplare (per i greci la contemplazione consisteva nell’osservare la volta
celeste, dove albergano le divinità e dove nascono le leggi regolatrici) ogni
volta incantata, la bellezza delle cose, intesa come idea di bellezza. Qui, in
questa poesia, è un’illusione addirittura fanciullesca.
“Le rose di
corallo” parla di un prodotto, un dono del mare: il corallo, appunto.
Il corallo rosa, un altro colore.
La rosa di corallo per l’amata è un tangibile segno
del pensiero del marinaio.
Un premio, un riconoscimento per la lunga attesa.
Ecco un altro tema che molti grandi autori hanno
affrontato.
L’attesa di un evento, di un desiderio covato per
anni, bramato e per esso consumato la vita: il ritorno. E’ una gioia grande,
importante, il ritorno, che può meritare il suo alto prezzo, ossia la
lontananza. E’ una felicità che “la crudele vecchiaia” brucerà presto.
Con “la fine
del viaggio” il grande tema del mistero. Leggendo questi versi riappare il
poeta metafisico, il poeta dell’insondabile, che non ha mai perso coscienza
della condizione umana.
“in
balia degli alti flutti,
attirata
nel gorgo immenso..
…
nella luce accecante del cielo”
Non si può spiegare razionalmente questa “luce accecante”, questo bagliore che non
ci permette di vedere, o meglio di capire, di valutare. L’immagine della “luce
accecante” è il mistero che non riusciamo a comprendere, è troppo forte, troppo
grande per la nostra conoscenza.
Il viaggio è giunto al termine. Il viaggio per
quest’uomo è la vita stessa. Una parabola, anzi un cerchio, dove l’arrivo
coincide con la partenza.
A condurlo nel suo viaggio non è stata solo la
nave. Il mezzo di trasporto principale è il tempo. Il lento mutare di ogni
cosa, per fermarsi e dilatarsi quando i ricordi hanno superato le stagioni.
Il viaggio del marinaio finisce lì, nella “luce
accecante”.Quale sarà la nave che lo trasporterà nell’oceano ignoto non gli è
dato sapere.
Luigi Leonardi*
*Luigi Leonardi ,
nato a Bagnone (Massa – Carrara) è scrittore, storico, saggista, autore di
testi per il teatro e testi musicali per l’interpretazione di Lucia
Marchi. Risiede e lavora a La
Spezia. E ’ tra i fondatori e redattori della rivista milanese
di cultura “Malvagia”, nata nel 1981 con l’appoggio di Carlo Cassola. Tra le
sue pubblicazioni: “Il sogno di un altro”(racconti); “Dentro lo Stige”(romanzo
sulla storia della Resistenza in Lunigiana). Nel 2011 ha pubblicato con
Mursia il saggio di narrativa storica “Epurazioni”.
APPENDICE
Premio Speciale Giuria “Il Prione”La Spezia , 1993,
per il miglior racconto avente per tema il mare.
Motivazione della Giuria:
"C’è
amore per il mare e per la vita che attorno ad esso si svolge, rappresentata da
una barca di pescatori; tuttavia, più che un racconto sulla vita di mare,
questa che si snoda sul filo della memoria e fa perno sulla figura emblematica
del nonno, è la storia di un uomo nato più di un secolo fa e vissuto in una
città di mare, la nostra, colta in alcuni momenti significativi. E’ la nipote
che racconta, con tono sommesso e commosso, un po’ dolente, lei allevata da
quel nonno, lei colta ed affamata di cultura cui il nonno analfabeta è riuscito
tuttavia a trasmettere i propri fondamentali valori, il senso del dovere, una
visione non lieta della vita.
Lo
stile, fluido e semplice in aderenza al tema trattato, è essenzialmente lirico,
dotato di grande efficacia evocativa.”
Ci sono momenti in cui il bisogno di
solitudine e di raccoglimento è un’esigenza fondamentale. Ci sono momenti della
vita in cui potresti impazzire se non riesci più a parlare con la tua anima.
Per questo io ti guardo, guardo il tuo ricordo mentre tanto tempo è passato,
per capire se nella tua storia c’è la storia della mia vita, della nostra vita.
La memoria è un bene troppo grande. La tua memoria è la fonte della mia
fiducia, è il filo che mi guida attraverso il tempo. Ti guardo, seduto sulla
panchina, nell’ombra calma della sera, davanti al mare. La vita è una barca che
si allontana sulle onde, una macchia di colore nell’azzurro, poi non ne
sappiamo più nulla. Ti alzi e te ne vai, trascinandoti stanco nella strada
ormai vuota, mentre il sole tramonta e
le barche ondeggiano in rada. Soltanto io posso raccontare i tuoi ricordi,
perché qualcosa rimanga di te.
Sei nato nel 1897 nella piazza davanti al
molo, di fronte al monumento a Garibaldi, al piano alto di una delle case
colorate e tutte attaccate che stringono ai lati il carrugio, così tipiche
della Liguria.
In
quinta elementare prendesti la cartella con i libri, sciogliesti gli ormeggi
della barchetta e remasti, remasti fin dove l’azzurro è più forte, dove la
corrente è più rapida e la gettasti via. Tua madre piange ancora adesso, nel
mondo delle ombre lontane. Io, che ho trascorso molti anni sui libri, non mi
sento di rimproverarti quel gesto. Ne sorrido piuttosto e quasi me ne
compiaccio, forse perché rifiutasti in partenza quello che ho inseguito
vanamente per tutta la mia vita.
Tuo
padre, il mio bisnonno, era di mestiere pescatore: usciva ogni giorno in mare
con la barca da pesca a vela, il “bragozzo”. Allora il mare era pulito, i suoi
fondali chiari e misteriosi erano popolati delle più strane creature marine. Il
nostro paese, Lerici, apparteneva solo ai suoi abitanti, non c’erano strade
asfaltate, pochissimi erano i turisti, inglesi quasi tutti, nei primi del
1900….. Tu eri un bambino forte e goloso: mangiavi sempre castagne e fichi
secchi, che gli altri fanciulli ti portavano in cambio di una gita in barca.
Hai sempre preferito, per tutta la vita, lo scambio, il baratto, alle
ricompense in denaro.
Quando
tuo padre tornava stanco dal mare, non bisognava stare con le mani in
mano:lavavi le paniere del pesce, aiutavi a friggerlo nelle grandi padelle
nere, poi accompagnavi tua sorella a vendere la frittura al molo. La sorella
Giovanna, che aveva paura a fare la strada da sola: aveva sedici anni, i suoi
capelli erano biondi come l’oro, la sua pelle abbronzata, gli occhi verdi come
il mare. Tu le saltellavi dietro impettito. Vi immagino sulle strade di pietra,
lungo i muretti scaldati dal sole della
sera, come in un quadro antico; al confine degli orti
le agavi solenni, in fondo agli scalini l’azzurro, il padre mare, il dio della
vita. Dopo cena uscivi con gli altri ragazzini a frotte, a cacciare i gamberi
sul molo. Allora era sempre estate. Più il miracolo della memoria mi abbaglia,
più mi accorgo di quanto tempo è passato e come tutto è cambiato così in
fretta. Una volta pescati i gamberi con il retino, rapido li vendevi al mercato
del pesce e correvi a comprare la cioccolata: una lista da mezzo chilo due
soldi. Due soldi!
Nella
salita per arrivare al castello c’erano i magazzini dei pescatori. Nel muro si
apriva una porticina verde: quella del tuo pollaio. Avevi sette galline e te ne
prendevi cura, lasciandole libere nell’orto a beccare e richiamandole alla
sera, per nome, per richiuderle. Ogni tanto ripulivi il magazzino di tuo padre
e il pollaio. Una volta ti venne in mente di portare le tue galline in barca:
anche loro dovevano partecipare della tua felicità; invece si sentirono male,
tutte quante, e dovesti tornare subito indietro.
D’estate,
nella notte buia, quando il mare è nero come una bestia silenziosa e
addormentata, quando è liscio come l’olio e tutte le cose sembrano irreali,
partivi alle due dopo mezzanotte, con tuo fratello più grande e con la barca
attraversavate tutto il Golfo fino all’isola del Tino. Tu avevi tredici anni,
Fortunato ne aveva sedici. Andavate
incontro a vostro padre, gli portavate da mangiare, riportavate indietro il
pescato se lui decideva di tornare in mare aperto. Quando incontravate gli
scogli dell’isolotto, avevate sempre un brivido; uno dei due si gettava in
acqua e portava la corda a riva, poi la legava stretta ad un appiglio. Dopo vi
arrampicavate su fino al faro. Prima delle grandi guerre, l’isola era un
paradiso. Apparteneva a tutti e apparteneva a voi. Sulla cima del faro
trovavate l’amico fanalista che fumava la pipa e vi offriva sempre un bicchiere
di vino. Col cuore in gola puntavate i binocoli verso l’orizzonte. L’orizzonte
prima era scuro come la notte intera, poi aveva una striscia di luce
bianchissima ed improvvisa, poi altre luci più rosa, più gialle. Apparivano
lontani profili di isole, che non credevate vere, verso la costa toscana e la Corsica si mostrava maestosa all’orizzonte. Poi sulla linea tra
cielo e mare spuntavano le prime imbarcazioni, oltre la costa frastagliata e
bianca dell’Isola Palmaria: c’era una vela con una grande stella rossa. Era il
peschereccio di tuo padre che tornava dal mare aperto.
In casa tua nessuno e niente era inutile: le tue sorelle cucivano a mano
le vele e le reti da pesca, disegnavano, ricamavano e vendevano i pizzi per i
vestiti, le coperte, i corredi, e nella loro arte erano famose. Giovanna
ricamava e disegnava, era bravissima. Maria era sarta in casa. I loro capelli
bianchi, i loro vestiti neri, nelle
fotografie e nei sogni; i loro nomi sulla pietra, li leggi e te ne vai; a cosa
serve vivere!
Due dei tuoi fratelli morirono ancora bambini: dormivi
nel letto con loro, e dopo non c’erano più. Tua madre alta, solenne, faceva
loro impacchi di erbe sul petto, inutili; non ricordi bene come accadde, ci
sono tante cose che passano, oggi ci sono tante medicine inutili nei nostri
cassetti, tu non le vuoi…. Invece tuo fratello Pietro lo ricordi bene: era
bellissimo, biondo, con i capelli tutti riccioli e gli occhi azzurri,
vivacissimi, chiari chiari . La sua voce, quando cantava, faceva venire le
lacrime agli occhi. Tutte le sere andava a cantare: nel negozio del barbiere si
incontrava con gli amici e andava a fare le serenate. Una sera vostro padre si
arrabbiò per quella sua manìa di lavorare poco e di cantare tutto il giorno
come un fringuello e non lo fece uscire.
Gli amici sotto la
finestra lo chiamavano, le ragazze dietro le imposte chiuse piangevano, le
madri scuotevano la testa. Ci sono persone che portano con sé la felicità degli
altri: Pietro aveva diciassette anni, era alto magro abbronzato e per la strada
tutte le fanciulle lo prendevano a braccetto, le più sfacciate lo mangiavano di
baci e gli chiedevano di cantare. A lui solo tutto questo era permesso, perché
Pietro non era come gli altri. Aveva una voce alta, melodiosa, sottile, che ti
toccava l’anima a sentirla: cantava canzonette e romanze, su per la via che si
arrampica sulla collina.
Dal mare alla collina gli occhi
brillavano, i cuori si stringevano: allora non c’era la radio, non c’era la
televisione, non c’era la musica: c’era quella sua voce. Quanto mi sembrano
impossibili le cose che racconti! Sgrano gli occhi, quasi non ci credo, vorrei
tornare indietro, poterlo abbracciare, baciarlo anch’io sulle guance morbide lo
zio Pietro, carezzare i suoi riccioli biondi…..quando venne la guerra lui
nonostante il coprifuoco poteva cantare fino a mezzanotte: andavano anche i
Carabinieri a sentirlo e sempre i
militari in congedo. Ricordi che una
bella sera d’estate del 1922 fece una serenata alla tua fidanzata, mia nonna.
Lei non potè dimenticare quella sera, per tutta la sua vita. Una volta Pietro
cantò anche in teatro, a La
Spezia. Vostra madre piangeva come una fontana per la
commozione. Lui invece era sempre allegro e scherzoso, faceva un motto di
spirito dietro l’altro, il sangue toscano e burlone di vostro padre scorreva
più veloce nelle sue vene. Poi conobbe una donna che gli legò il cuore, e non
cantava più. A pochi mesi dalle nozze Pietro morì per una febbre epidemica,
maligna, un’influenza letale detta “spagnola”: aveva ventotto anni. Tu non vuoi
più ricordare: sulla tomba bianca c’è soltanto il nome, non c’è neppure la
fotografia, si è rotta tanto tempo fa, avrei tanto voluto vederla. Non c’è
neppure un fiore, solo il muschio umido che cresce sulla gradinata. Il
silenzio. Quanto dolore passava nella casa in alto sulla piazza, allora. Avevi
appena sedici anni quando tuo padre si ammalò di una malattia polmonare
incurabile; il Pà diventava sempre più magro e pallido, tua madre piangeva
quando lo vedeva partire, quando il peschereccio si allontanava sul mare. La
gente parlava e scuoteva la testa. Nella notte a volte ti svegliasti sentendo
che tuo padre soffocava, tossiva. Un terrore segreto per la vostra
sopravvivenza ti prendeva. Finchè il Pà vendette il peschereccio: non poteva
più sopportare il grande vento del mare, la brezza umida delle notti.
Avevi sedici anni e dovesti partire.
Tua madre non voleva, il suo povero cuore era spezzato. Tuo padre fece fare da
un cugino di Genova un libretto di navigazione per te e saliste su un grande
pullman sgangherato, per arrivare a Genova, la grande, la Superba. E da allora ci
fu per te il duro lavoro sui ponti delle navi o nelle cucine calde e
soffocanti, poi vennero le guerre con il loro fardello di sangue e di dolore.
Una lunga, lunghissima vita, quasi un secolo e quasi il giro del mondo:
l’America, l’Africa, l’Europa e gente di tutte le razze e le Nazioni.
Alla fine del viaggio sono arrivata io, tua unica nipote: una bambina
strana, svagata, con la testa sempre tra le nuvole. Quando ero piccola, tu
avevi cura di me. Mi portavi a scuola e poi tornavi a riprendermi;ricordo la
strada grigia del molo con la distesa di barche in attesa della verniciatura,
ricordo che stringevo la tua mano grande e vigorosa e non avevo mai paura. La mia
infanzia fu luminosa e spavalda. Tu mi portavi a pesca nel Golfo in estate,
d’inverno mi accompagnavi alle giostre della fiera. Andavamo a vedere i fuochi
d’artificio la sera di S.Erasmo Patrono; per Carnevale, tu mi prendevi in
braccio e mi issavi sul palco a cantare, mascherata da messicana; ridevi sotto
gli occhiali d’oro con un sorriso pieno d’allegria. Non perdevi occasione per
raccontarmi delle cose e delle storie, nella tua semplicità eri l’unico a
preoccuparti di quello che potevo pensare, e capire, nel mio mondo infantile.
Nelle sere di primavera venivo a sedere accanto a te sul terrazzo: insieme
guardavamo le stelle infinite, senza parlare. Ora, quando avverto come un peso
intollerabile la responsabilità del bene e del male, è ancora la forza che sprigiona da te, che mi
incoraggia a continuare il cammino. A volte vorrei fuggire lontano con te, nel
tempo azzurro e felice dell’infanzia che non è più. Il mare, nella notte, ha
mille cristalli di luce.
La nostra barca si allontana, bianca
sotto la luce della luna.
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