Venerdì 15 novembre, alle ore 17.30,
al Museo Diocesano della Spezia (via del Prione, 156), lo scultore Fabrizio Mismas, già docente al Liceo Artistico di Carrara, ha tenuto una conferenza dal
titolo “Carro uomo e artista: un tentativo di ritratto", documentata dalla
proiezione di interessanti diapositive sulla continuativa e significativa
testimonianza resa all’arte dall’apprezzato scultore spezzino scomparso nel
2001.
L’omaggio
espositivo dedicato a Guglielmo Carro (1913-2001), nel centenario della nascita,
è visitabile sino al 9 dicembre p.v. con il seguente orario: giovedì 10.00-12.30; venerdì, sabato e
domenica 10.00-12.30 e 16.00-19.00
PER GUGLIELMO CARRO di Fabrizio Mismas
Il brano è stato scritto nel Luglio del
2001, all’indomani della scomparsa di Guglielmo Carro.
Guglielmo Carro - nel suo studio - |
Il portale di S. Maria, da solo, occupa un capitolo
lungo quanto la trentennale gestazione dell’opera. La plastilina che
inesorabilmente si deteriorava, ammuffiva e impregnava lo studio di odore acre,
svettando al di sopra dei traballanti cumuli di libri, disegni, riviste mai
scartate, lettere mai aperte, giornali pieni di appunti, boccette di china
vuote, colori induriti, bronzetti sommersi, premi o inviti disattesi, statue,
rilievi, tavoloni tarlati, armature arrugginite, attrezzi antichi, oggetti
pregiati e altro di difficile identificazione- sedimenti di una lunga vita-
ricominciò un giorno a tirare calci nel ventre dello studio inaridito
dall’attesa: il Vescovo Sanguineti gli chiedeva di terminare l’opera e di
adattarla alla nuova destinazione. Quest’uomo portato ad ingarbugliare più che
a spianare, a valutarsi “gneco” più che energico, ad avvertire
inestricabili rovine in un centimetro che non torna o in una polliciata trita,
si sentì di botto impantanato tra sentimenti snervanti e contrari.
L’aspirazione di vedere finalmente collocato quell’ingombrante peso sulla
coscienza s’invalidava contro l’incubo di squalificare il proprio mito con un
lavoro fuori tempo. Conseguenza prevista: tormenti, maledizioni, sospetti. Il
portale fece intensificare le mie visite allo studio. Il tempo, se mi aveva
spuntato l’impertinenza del giovane tutto domande che invadeva lo studio-eremo,
continuava a conferirmi l’ingrata prerogativa di provocare, ad ogni visita, un
morso su un orgoglio che veniva da lontano. Artista di antica pasta, modellata
sull’altera dignità dei Carmassi, dei Del Santo e dei Magli, non avrebbe retto,
da uno molto più giovane, non solo la rasoiata di un giudizio supponente ma
anche il semplice consiglio. Un grande bronzo al centro della propria città,
però, recava angosce ancora più soffocanti e la lettura senza falsi riguardi di
una terza persona poteva essere sì umiliante al suo decoro di maìstro ma
anche conveniente e orientativa. E allora i nostri incontri davanti al portale
finivano col consueto epilogo della presunta mortificazione ma anche con
l’imperativo, maledetto, di fare. In quegli incontri avrei voluto lì, dietro a
noi, le tante persone che ritengono che l’arte si fruisca con un “mi piace e
non mi piace”, “mi dice qualcosa o non mi dice niente”.
Tiravamo una radiografia critica sulla plastilina, poi sul gesso, sfogliando
pagina per pagina tutto il grande libro delle regole applicabili a quel tipo di
scultura. Dal capitolo della composizione a quelli dell’impostazione, della
costruzione, della modellazione e via giù fino all’ultimo e più importante:
quello delle deroghe, della sconfessione delle regole appena appurate, della
licenza poetica. Spassionatamente l’opera era denudata e computata. E Carro,
uomo già avanti negli anni, da sempre vittima dell’indolenza, dopo il teatrino
degli improperi e dell’invocazione della morte liberatrice, mai avrebbe
applicato alla scultura quell’ ”a m’en fò assé” che invece applicava
alle fatue regole sociali: piegava sé stesso e ricominciava da capo
intere parti solo per lanciare una parte di sè oltre il proprio tempo: spostava
ogni giorno la personale montagna per far girare con più solidità il sedere del
cavallo o per ripulire dal trito la figura del papa buono e “pansòn”.
Poi i pochi incontri notturni all’ospedale. Carro
che riemergeva dal materasso e dalle lenzuola chiedendo con voce lontana e roca
che giorno è e rianimandosi progressivamente all’argomento dell’arte. E a
vederlo lì, in quel letto, la vita sembrava essere stata solo un’irrequieta
cavalcata per raggiungere questo traguardo di immobilità. La voce impastata
prendeva velocità nei ricordi di occasioni eluse, di artisti finalmente capiti,
di lunghi colpi del palmo della mano sulla creta molle, del candore di una
pennellata dimessa e opaca. E poi i saluti amari e l’afflizione senza soluzione
di chi vede consumarsi giorno dopo giorno gli ultimi brandelli di futuro.
Contro la parete disadorna della stanza scorreva il Carro sempre coperto oltre
il necessario, con il nastrino blù per cravatta e l’ombrello, con quelle tre o
quattro parole speciali che incastrate in modo speciale disegnavano compiute
immagini verbali. E poi Carro che si scaglia contro il poliziotto che non gli
chiede i documenti; che investe un monaco in treno perché sta pensando a
Giordano Bruno e che si abbatte per una parola di speranza nel successivo
scontro del tutto immaginato; che imposta le lezioni di Plastica
nell’improvvisazione giornaliera e che, solo lui, è il confessore rincorso dai “patrisietti”
e dalle “patrisiette” sgomenti per i loro grandi piccoli dilemmi; che
legge e rilegge “quer casso” di Proust e “quer casso” di Joice,
idolatrati e detestati per aver detto quasi tutto; che disorienta gli
interlocutori per i troppi rivoli che si dipartono incessantemente da un
torrente di parole in piena che non giunge mai al termine; che in posa da
violinista manda in quel paese, tra ripetuti scusi scusi, gli adulatori
e gli enfatici che odia; che salta dalla collera al rimpianto al faceto,
vecchio ragazzo irridente; che, nascosto tra la gente, tiene in imbarazzante
sospensione cerimonia e autorità all’inaugurazione delle porte di S. Maria; che
ha imparato il vocabolario dotto dalla grande letteratura e il vocabolario
aspro sui ponti “de legno e de filòn” dei muratori di una volta, dove
ogni bestemmia era una burbera raccomandazione a Dio; che quotidianamente si
trascina il confronto perdente con un padre efficiente e concreto; che è
accondiscendente vittima di uno studio che gli ha lasciato troppo poco spazio
per quella scultura che ormai non si può più fare; che ha temuto per tutta la
vita quella malattia e quella morte apparse, in fondo, non poi tanto nere.
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