SALA CARGIA' - PROMOZIONE ARTE E CULTURA 2013 - SEZIONE POESIA
“SALVACONDOTTO PER MONSALVATO”
“SALVACONDOTTO PER MONSALVATO”
Incontro con la poesia di Thea Maria Parodi
Roncon
a cura di Donatella
Zanello
“Sorgeva dunque a quei tempi / su un
picco eccelso dei Pirenei,
detto il Monsalvato,una rocca immensa, diritta e liscia.
Aveva torri e bastioni possenti / che l’attorniavano
da ogni lato… cupa e minacciosa all’esterno, era invece
all’interno amenissima e piena di pace”.
(“I cavalieri del Santo Graal”)
“Salvacondotto per Monsalvato” di Thea Maria Parodi Roncon è un vero e proprio gioiello letterario di
rara fattura. E’ la primasilloge di questa interessante autrice, dotata di una
straordinaria ricchezza lessicale e di inesauribile capacità descrittiva e dialettica.
La scrittura di Thea è vigorosa, scorre fluida come un torrente in piena, densa
di riferimenti filosofici e letterari, sia in poesia che in narrativa, con
abbondanza di argomenti quali la psicologia, la filosofia, la
memoria, la mitologia, il tempo, la descrizione naturalistica. La sua parola
poetica è come una lama brillante che scinde la realtà e la analizza secondo
criteri di assoluta libertà e ricerca della verità. Grandi temi, versificazione
breve e scabra in questo testo, in altri suoi scritti ricca di aggettivi.
Il
“Salvacondotto” di Thea rivela un forte intento libertario.
E’ infatti l’affermazione della propria libertà spirituale, del proprio
modo di cercare la salvezza nella realtà e dalla realtà, attraverso un percorso
interiore di autocoscienza.
Monsalvato è la mèta del viaggio, indicata nello
splendido “incipit” come antica
fortezza leggendaria, “cupa e minacciosa all’esterno, invece all’interno
amenissima e piena di pace”. L’elemento fortemente simbolico indica un percorso
psicologico . Guardarsi dentro per trovarsi,
in una solitudine vissuta come scelta nobile, solitudine positiva, priva di conflitti e quindi foriera di pace, raggiungibile
attraverso la meditazione e volta ad annullare il dolore. Il “salvacondotto” è
appunto la possibilità di redimersi, di salvarsi attraverso l’istinto di autoconservazione e
non solo, protraendo la vita oltre la vita attraverso la parola poetica. In questo senso la poesia è
salvacondotto per antonomasia poiché non è rivolta al particolare ma
all’universale.
La parola scritta è un mezzo talmente potente da
attraversare i millenni: “Scripta
manent”.
Anche la genesi di questo libro porta il segno
dell’eccezionalità e della catarsi:
infatti Thea dichiara che “è stato
scritto in una notte, vegliando in attesa di una morte annunciata”. Da
questa notte tragica e fatale “prende
forma e contenuti questa ballata, ispirata a un viaggio conoscitivo ed
epuratore del pellegrino – uomo nel mondo – vita”.
La ricerca spirituale conduce al Monsalvato, luogo di perfezione
cui si giunge attraverso la presa di coscienza dei propri errori. Suggestivo
è il riferimento alla leggenda di
Parsifal e del Santo Graal custodito a Monsalvato. I Cavalieri che custodivano
la coppa nella quale Gesù bevve il vino dell’ultima cena dovevano essere puri e
coraggiosi, rinunciare al mondo e vincere le tentazioni.
Il percorso spirituale è suddiviso in quattro
parti:
I PARTE: dall’infanzia
all’adolescenza;
II PARTE: dall’adolescenza
alla giovinezza;
III PARTE: dalla
giovinezza alla maturità;
IV PARTE: verso
l’età della ragione.
Nella Prima Parte la poesia n. 3 indica nell’albero senza radici, il tronco, dimora di
creature messaggere di morte, il simbolo di un’infanzia tradita ed abbandonata
a se stessa, segnata dall’assenza dei genitori che avrebbero dovuto costituirne
la radice ed il nutrimento. E’ un’ infanzia innocente e tenera che già
comprende l’inutilità del nozionismo scolastico, della conoscenza fine a se
stessa.
Ugualmente nella poesia n. 5 ritorna l’amara constatazione di una sofferta solitudine
infantile:
“Feci per quelle foglie
“Feci per quelle foglie
ciò che nessuno fece a me bambina:
indicai la strada, regolai la sorte.”
N. 9:
“Ma davvero pensi che la mia vita cambierà,
quando avrò imparato il teorema di Euclide?
O saprò solo ciò che non mi servirà
a capire l’Amore, a vivere una vita
senza disavanzi, a comportarmi con pietà?”
N. 10:
“Percorsi il viale infanzia intimidita e
triste;
la mia mano, tenera noce esposta
senza il guscio di un’altra mano,
pendeva inerte sul grembiulino di cotone rosa.”
Nella
II Parte, l’autrice affronta i grandi temi dell’amicizia e della pietà.
Lirica
altissima la n. 16.
“L’amicizia fu il mio fiore all’occhiello,
il sentimento di cui andavo fiera.
Senza pensare al freddo dell’inverno
…ma solo al dono di se stessi ….
pescai nel sacco delle mie
monete
…finchè giunsi al fondo.
Tutto dunque era stato sperperato
invano?
Avrai pur trenta lire – disse allora
qualcuno.
–
Ti potrebbero servire –
E
capii la lezione.”
L’autrice
descrive l’adolescenza come passaggio, malattia e convalescenza, dolorosa
trasformazione il cui male è “l’assenza
di diritti e ragioni”. Età difficile e controversa nella quale si riceve a
piccole dosi come in una necessaria profilassi la percezione del male della
vita, preparazione inevitabile che solo alcuni riescono ad attraversare indenni ed anzi rafforzati.
Nella parte III – “Dalla giovinezza verso la
maturità”l’autrice continua il percorso a ritroso nel proprio vissuto e narra
lo studio delle lingue interrogandosi filosoficamente sulla tragedia
dell’incomunicabilità che si oppone alla cultura ed al progresso e ribadisce la
propria scelta orgogliosa di isolamento ed autodifesa, di riflessiva
solitudine, l’incertezza di una preparazione eclettica in labirinti oscuri di
libri senza guida e senza un ordine ben preciso. Soluzione per sopravvivere
alla realtà matrigna è l’indossare una maschera, creare un “alter ego” che ci
somiglia, incassando i colpi della malasorte nel cuore di pezza.
Nella
poesia n. 28 anche l’Amore viene
respinto, accantonato, rifiutato a causa dell’atavico terrore dell’incertezza
che ne potrebbe seguire:
“Un giorno s’affacciò l’Amore
col tenero giustacuore
color confetto.
Timido e circospetto
scoccò una sola freccia
che andò dritta al segno.
A quel punto il panico mi prese.
Che fare?
Fuggire – Restare – Affrontare –
Retrocedere – Concedere
O Rinunciare?
Non reggendo alla lotta,
ho barato col tempo,
ho accelerato la fine:
ho scelto la solitudine
piuttosto dell’incertezza.
Nel percorso dell’autrice il viaggio è un tema
ricorrente. Il viaggio più importante è quello che si compie nella memoria, che
ci conduce “nelle terre oscure del cuore”,
oltre l’orizzonte sensoriale. La vita è anche compromesso e durante il cammino
ci accade di incontrare gli opportunisti, i gradassi, gli strafottenti
presuntuosi, gli ipocriti e di avere a che fare con loro per necessità legate
alla nostra sopravvivenza, così diventiamo come loro e ci comportiamo allo
stesso modo (n. 30). Infine si diviene preda della “triste brigata” dei dubbi esistenziali. La purezza della coscienza
si sfalda e l’anima – o la mente – attraversa uno stadio successivo di
maturazione, per raggiungere una nuova amara consapevolezza della pochezza
umana, laddove l’entusiasmo e l’innocenza della giovinezza si spengono e
divengono cenere di ricordi consumati al fuoco dell’esperienza.
Prosegue e si conclude il viaggio nella IV parte ,
“Verso l’età della ragione”. Proprio la ragione è la fine del viaggio, poiché è
nella ragione che sta la salvezza dell’uomo. Ragione che è null’altro che
triste consapevolezza, socratica sentenza e tuttavia concetto dignitoso
dell’esistenza come valore assoluto. Tuttavia l’autrice riconosce nella sua
esistenza una “bozza mai pronta per la
stampa” e va disfacendo il suo tempo nella ricerca incessante di una via di
fuga da una realtà percepita come perennemente insoddisfacente, nel tentativo
di “truffare la sorte” (n. 33): “Ho avuto dunque più vite? Certo. Quante sono
le pagine scritte, le poesie cantate, gli eroi di queste pantomime.”
Nichilismo, perdizione dunque e
smarrimento ma smarrimento consapevole, come in Cesare Pavese, come in tanta
poesia del Novecento. Questo è il pessimismo della ragione, pessimismo
gnoseologico e deontologico, di cui sono intrise queste pagine, una vaso di
Pandora al cui fondo giace la Speranza, “Spes ultima dea” in se stessa inutile.
Vivere è dunque la snervante fatica di “tenersi
in equilibrio”, quando per anni non
accade nulla di nuovo ed il tempo prezioso si perde nell’assurda trappola
dell’attesa di qualcosa che non giunge mai. Certi destini sono segnati in
partenza, questo vuoto esistenziale è certo appannaggio dell’essere umano in
quanto tale e nessuno sfugge alla permanenza nel labirinto, nessuno, neppure
l’eroe Teseo con il suo filo donato dalla sventurata Arianna, la cui generosità
sarà ripagata dall’essere amato con l’abbandono e la morte. La scelta di un dio
irrazionale è soluzione allo smarrimento di uno spirito curioso e libero quale
è quello dell’autrice. Ella segue “una lunga discesa fortunosa”. Tuttavia sa
che agli errori non vi è più alcun perdono nell’età della ragione adulta e
responsabile e gli occhi del mondo sono pronti a giudicare. Percorrere dunque
altre strade, in analogia con il moltiplicarsi dei rami del labirinto. “Mi umilierò per sapere.” “Pagherò col dolore la conoscenza”.
Soltanto in questo modo si perviene alla saggezza, che ci rende migliori e
migliora la nostra vita, in una stasi dimenticata che ci riconcilia con tutto
l’universo. Raggiunta questa posizione privilegiata che è assicurata dall’avere
acquisito conoscenza e saggezza, si può osservare dall’alto il teatrino della
vita e domandarsi se si tratta di commedia o tragedia. Ebbene, “è solo farsa demenziale, una corsa
inconcludente dietro alle etichette, un aizzare invidie, sfrenate gelosie, una
meschina giostra delle ipocrisie.
In tutto questo meschino rimestare,” l’Amore, la Vita stessa,la gioia del dare,
l’ebbrezza del volo” non trovano posto. E’ questo il medesimo sentire dei
grandi Poeti Maledetti, l’emblema del simbolismo francese in poesia. In questo
contesto di emarginazione intellettuale il peso della memoria e delle vite di
coloro che non sono più è un macigno sulla coscienza, un tormento notturno di
demoni che è necessario combattere e respingere. Poiché anche la memoria deve
restare circoscritta, non può invadere lo spazio della vita avvelenandola con i
suoi miasmi di rimpianto e rimorso. A questo punto, per l’autrice “Damasco è una buona mèta” (n. 42):
mettersi sulla via della fede in attesa di una folgorazione, di un segno di
speranza, di uno spiraglio per l’eternità. Grande è il desiderio – e
conseguentemente la fretta – di giungere all’agognato traguardo, tuttavia per
la durata dell’intera esistenza la folgorazione non avviene e non avverrà mai,
fino alla fine. Occorre un’arma segreta per uno spirito che è sovranamente
libero: siamo alla conclusione, nichilistica, orgogliosa, difficilmente
condivisibile se non ad un livello più profondo, intimo, in un anelito estremo
di affermazione del Sé, da non considerarsi egoistico ma esclusivamente e
totalmente libertario e liberatorio:
n. 43:
n. 43:
“L’arma segreta
della mia sopravvivenza
è l’indifferenza
alle vostre opinioni.”
Per concludere, si può affermare che nel caso di
Thea Maria Parodi Roncon la poesia assurge a traccia di pensiero filosofico
complesso, enunciato di autocoscienza, proclamazione di libertà spirituale in
difesa di valori assoluti incompresi e calpestati.
Mai come in questo caso la poesia “è belva
sapiente” , strumento di conoscenza e di affrancamento dal male, reale lasciapassare
per il raggiungimento della pace interiore. In questo percorso poetico inizio e fine coincidono mirabilmente, grazie
alla perfezione stilistica ed alla profondità concettuale e tutta la verità di
questo testo poetico è già presente nel titolo – simbolo, eccezionalmente
suggestivo: “Salvacondotto per Monsalvato”.
Donatella Zanello
NOTA BIOGRAFICA DELL'AUTRICE
THEA MARIA PARODI RONCON
Il mio percorso di poesia inizia quasi a
mia insaputa, mentre leggevo in una rivista un reportage del giornalista
M.Deaglio sul Nicaragua. Da poco c'era stato un terribile terremoto e la
capitale Managua era un cumulo di rovine. Deaglio tra l'altro aveva fatto molte
interviste agli abitanti della baraccopoli e , tra questi, aveva intervistato
un'anziana signora che, seduta sulla soglia di una casupola in lamiera, aveva
confessato di essere stata il grande amore del Generale Sandino. Mi riscaldò il
cuore l'idea che, nonostante le pessime condizioni di vita, le ristrettezze
economiche e le incertezze del futuro, questa donna coltivasse ancora dentro di
sé il ricordo di un lontano amore.
Questa anziana signora di ottantatre
anni, Maria Soledad, fu dunque ispiratrice della mia prima poesia, nella quale
costruii la storia di un amore tradito. Alla
“Ballata per Maria Soledad” seguirono molte altre poesie, che ritraevano
personaggi di cronaca e che mi valsero l’appellativo di “poeta politico”.
Tuttavia dietro queste rappresentazioni si nascondeva il pudore di esporre i
propri sentimenti, di offrirsi alle critiche e ai giudizi del mondo.
Poi, nell’aprile del 1989 morì mia nonna
Esther: questa data segna la fine delle mie poesie politiche e l’inizio di un
nuovo percorso come “poeta della memoria”. Il testo scritto nel 1989 è stato
pubblicato dalla Firenze Libri con il titolo “Salvacondotto per Monsalvato”.
Nel 1996 scrissi la silloge “Risalire indietro” che vinse nello stesso anno il
Premio Letterario “L’autore”.
Dal 1996 al 2001 il mio contributo alla
poesia divenne raro ed occasionale, fino all’ottobre 2001, quando scrissi
“L’orologio e il tempo” in ricordo di mia madre. Dal 2001 al 2010 i miei
interessi si volsero allo studio e riflessione sulla natura, sulla società e
soprattutto sull’anima. Approfondii la ricerca delle regole del linguaggio, le
sue leggi rigorose, una delle quali è il silenzio: tacere è un diritto
dell’interlocutore, tuttavia se si decide di parlare è necessario adeguarsi
alle regole della parola. Così sono nati testi di riflessione e poesia da me
forse impropriamente definiti “Vaudeville”, con particolare riferimento ai
testi recitati per le strade d’America dal poeta V. Lindsay e con i seguenti
titoli: 1. “Prove di dialogo e di silenzio”
2. “Apologia del
dubbio”
3. “Seguendo la coda
della cometa”
4. “Il gioco delle
identità”.
Ognuno di questi testi ha un argomento sul
quale ho sviluppato le mie riflessioni: l’amore, la verità, il dubbio, il
rapporto madre – figlia, il concetto di identità.
Thea Maria Parodi Roncon
NOTA
INTRODUTTIVA ALLA SILLOGE “RISALIRE INDIETRO” di Thea Maria Parodi Roncon
a cura di Carmen Claps *
In
“Salvacondotto per Monsalvato” l’autrice aveva scritto che l’unico viaggio che
conta è quello nella memoria. E in questo libro, eccola alle prese con un
viaggio nello spazio ma soprattutto nel tempo, una risalita indietro, un
muoversi a ritroso. Come tutti i viaggi nel passato è certo doloroso, perché si
tratta di una ricerca e di un recupero di paesaggi, cose, eventi, persone che
furono e non sono più, tuttavia questo viaggio è anche estremamente dolce,
perché legato ad anni felici. Qui l’oggetto non è l’asprezza di un presente
senza certezze ma la tenerezza del passato. Prevale qui il paesaggio,
indispensabile cornice, dove la natura è pienamente protagonista: qui l’albero
non è più solo un tronco senza rami. La parola sapiente, gli aggettivi
estremamente curati, scelti con la felice precisione di chi ha una quotidiana
confidenza con la scrittura, ci trasportano in un mondo agreste e misterioso,
ricco di oggetti, mestieri, tradizioni ormai perdute e per questo motivo ancor
più affascinanti per chi è cresciuto nella caoticità meccanica della vita
contemporanea.
Carmen Claps
Da “RISALIRE INDIETRO”:
SMARRIMENTO
So
che vivere è anche questo smarrimento,
questo
tonfo di sassi sulla superficie
piatta
e uguale di un relitto di palude
dove
da sempre tace il fischio
del
migliarino, voce della specie estinta.
So
che la vita ha un nome che varia
con
l’usura degli anni, ed ora
è
questa grigia lamina di nubi
capovolte,
questa deserta periferia
su
cui di notte s’accampa l’assordante
silenzio
della tua assenza.
E’
di nuovo autunno, madre, la stagione
delle
vendemmie definitive: è in questo
dignitoso
paesaggio
che
conviene ritrarsi.
SULLA
COLLINA DELLA CAVA
Sulla
collina della cava, rosa
da
grotte, voragini d’ombra con cupe
voci
d’acqua sotterranee, cresceva solo
un
leccio dalle rame storte, orfano
di
nidi, triste e maculato da una muffa
bianca,
rorida di linfe misteriose.
L’aria
già abbuiata odorava d’amaro,
sentori
d’erbe sconosciute. Già scura
la
valle sottostante, ma qui, nel cielo
dilatato,
perdura ancora una scheggia
di
luce, un lume fioco,
svaporato
di bianco,
lucciola
della sera.
Agli
ululati dei cani vagabondi,
ubriachi
di luna, col pelo sporco
di
polvere e di crusca, rispondo
con
un guaito piano, soffocato, io stessa
voce
ormai della natura.
Thea Maria Parodi Roncon
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