Sala Culturale CarGia’ amplifica il progetto di Promozione Arte e Cultura 2013 riservando
uno spazio alla presentazione di libri.
Ezia Di Capua
Introduzione
di Valerio P. Cremolini.
L’amico Egidio Di Spigna mi ha manifestato sincera
stima invitandomi ad introdurre la sua raccolta, frutto di una stagione poetica
non fuggevole, ed ha gradito che fossi presente anche in questa circostanza
dedicata alla promozione della silloge Dietro
l’uscio socchiuso, pubblicata dalle Edizioni Giacchè, il cui catalogo si
propone da tempo qualitativamente interessante.
Parlare nel salone che l’Accademia Capellini, dove
peraltro mi sento a casa, intitolato all’illustre Giovanni Sforza, prestigioso
studioso della terra lunigianese e generosissimo uomo di cultura, mi onora
tantissimo. Inoltre, affiancare in questo incontro Giuseppe Benelli, presidente
dell’Accademia e titolatissimo docente universitario, alimenta in me una
giustificata soggezione, ma anche un particolare entusiasmo.
Con franchezza esprimo il mio apprezzamento per
l’intelligente innesto pittorico tra le pagine del libro con la riproduzione di
alcuni dipinti del pittore Francesco Vaccarone. Ho detto poc’anzi di avere familiarità
con l’Accademia Capellini e quella con Vaccarone e la sua pittura sfiora i
cinquant’anni. Anche per questo, nel 2010, Vaccarone ha desiderato che fossi io
a curare la magnifica antologica allestita al Camec, contrassegnata da diffusi
consensi critici e dalla significativa affluenza di visitatori.
Poesia e pittura, concretamente
rappresentate e valorizzate dalle distinte testimonianze di Di Spigna
e
Vaccarone, non appartengono al pianeta
dell'effimero; le loro diverse esperienze dai molteplici esiti creativi
continuano incessantemente a comunicare messaggi sull'uomo e sulle cose tramite
la forza evocativa, talvolta smisurata, della parola e del colore.
Nella concezione dell’arte di Vaccarone, per chi
conosce la sua formazione culturale ed i temi affrontati in oltre mezzo secolo
di professione, sa come la poesia e la letteratura abbiano un legame piuttosto
solido con la sua pittura e di ciò si ha conferma sia nei suoi lavori giovanili
sia in quelli dei decenni successivi, caratterizzati da un linguaggio inconfondibile.
Premetto che ho sempre rispetto per chi scrive
poesie, esercizio di acuta riflessione, spesso di buona scrittura e di schietta
sincerità. Per Giuseppe Ungaretti “la
poesia è di tutti, scaturisce da un’esperienza strettamente personale e deve
portare il segno inconfondibile dell’individualità”.
La lettura di Dietro
l’uscio socchiuso mi spinge ad affermare che in questa prova letteraria si
coglie il profilo culturale e umano dell’autore, che al pari di rinomati
colleghi poeti, si offre e si apre senza alcuna esitazione al confronto.
L’esercizio poetico, che si sviluppa in sintesi dense di significato necessita
certamente di una sorta di isolamento che sostiene il poeta nell’elaborazione
formale dei testi, che si propongono come canali comunicativi verso più
direzioni.
È una peculiarità della poesia, arte della parola,
e del poeta aprire la sua mente e il suo cuore agli altri, felice di
raccogliere consenso, ma altrettanto onorato se i suoi versi vengano letti,
perché parole, interrogativi, richiami paesaggistici o espressioni affettuose,
fanno scattare una sorta di complicità con chi le ha generate. Anche perché il
lettore si ritroverà nelle diverse situazioni della quotidianità richiamate
nelle varie poesie, che se da un lato circoscrivono con autenticità
l’esperienza esistenziale dell’autore, dall’altro, grazie alla dimensione
colloquiale, stimolano la riflessione di quanti ne assaporano la genuina
verità. Poi, è altrettanto significativa la spinta evocativa che appartiene
alla scrittura dei poeti e quella che è propria della raccolta di cui stiamo
discorrendo genera sensazioni, pensieri, immagini che hanno un legame con il
vissuto di ciascuno di noi. Non è, allora, obsoleta la concezione che Giacomo Leopardi
aveva della poesia come “espressione
libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito nell’uomo”.
Ritengo, allora, di affermare che è un comune
ritrovarsi con le pagine del libro di Di Spigna che, rimugina il lettore, avrei
potuto scriverle io e con la suggestiva immagine proposta da Giuseppe Benelli di sentirsi custode della soglia. Il proprio
“io”, incorporato tra le scelte parole del poeta, viene svelato senza alcun timore e così tutto
ciò che lo condiziona, gioia e dolore, che nella vita si alternano senza sosta.
Ritornando sulla verità
della poesia richiamo un saggio del 1946 di Salvatore Quasimodo, L’uomo e la poesia, nel quale il poeta
offre la seguente risposta:”L’uomo vuole la verità dalla poesia, quella verità che egli non ha il potere di
esprimere e nella quale si riconosce, verità delusa o attiva che lo aiuti nella
determinazione del mondo, a dare un significato alla gioia o al dolore in
questa fuga continua di giorni, a stabilire il bene e il male, perché la poesia
nasce con l’uomo, e l’uomo nella sua verità non è altro che bene più male”.
Non diversamente Eugenio Montale scrive in Auto
da fè (1966):”Mi guardo attorno e non
vedo che volti devastati da una noia che non ha nulla di eistenzaile, ma è il
frutto di una supina acquiescenza a tutti gli aspetti peggiori del nostro
tempo. Un tempo che, dopo tutto, è stato fatto da noi”.
Citando Montale, Quasimodo e poco prima Ungaretti
ho ricordato tre protagonisti della poesia italiana del Novecento e con loro
l’importanza di un densissimo tracciato poetico, squisitamente italiano. In
esso non è marginale il significativo
apporto della nostra regione, caratterizzato da continuità e da voci, anche
innovative, di sicuro valore letterario. Penso ad Angelo Silvio Novaro e al
fratello Mario, a Ceccardo Ceccardi Roccatagliata, Camillo Sbarbaro, Angelo
Barile, Giovanni Descalzo, Edoardo Firpo, Ettore Cozzani, Luigi Perasso,
Giovanni Giudici, Roberto Pazzi, Franco Loi, Edoardo Sanguineti, Giuseppe
Conte, Adriano Sansa, Paolo Bertolani, a Renzo Fregoso, straordinario letterato
e infaticabile promotore del dialetto spezzino, nel cui nome associo le
poetesse ed i poeti spezzini contemporanei, che onorano la cultura letteraria
del nostro territorio.
Alla domanda chi è il poeta
ognuno di noi offre più risposte.
É “una specie di riassunto di tutti e delle voci del mondo”, dichiara
lo scrittore Erri De Luca. I poeti,
infatti, sono persone che non hanno timore di parlare di se stessi; sono
persone che non fingono, uomini che vivono,
palpitano, fremono, che parlano senza ritrosia dei propri sentimenti e ce li
offrono come tali.
Per la poetessa Antonella Anedda il poeta “è colui che avverte, prima degli altri,
nella sua carne viva, quel che accadrà poi; colui che inventa nuovi mondi e
nuove speranze per chi non ne ha, o non ne ha più; colui che soffre con chi
soffre e gioisce con chi sorride; colui che sa parlare ai piccoli, che non
conoscono parole”. Per Aldo Forbice “il
poeta è un uomo di estrema sensibilità che vive nel suo tempo, esprime le emozioni che lo circondano, e non tiene conto di
ragioni di opportunità”.
Ritengo di esprimere il
vero nell’affermare che nel profilo poetico Di Spigna queste definizioni non
gli sono per nulla estranee. Sono anche persuaso che ogni pagina di Dietro l’uscio socchiuso riveli come la
verità sia una presenza a cui il poeta non intende abdicare. Una verità che non
svanisce, ancorata a ciascun verso delle sue poesie. In esse i vari temi sono
proposti avvalendosi di una scrittura mai discordante e ciò facilita
l’accoglienza del pensiero del poeta di volta e dei suoi ricordi. Sì, la poesia
è memoria, anzi, precisa Davide Rondoni, “è una messa a fuoco nella memoria”.
Il poeta l’attraversa iniziando un intenso viaggio sostando sempre con
particolare piacere, cito ancora Ungaretti, su esperienze talvolta esclusivamente
interiori, che evidentemente hanno significato molto nella sua vita, ripercorsa
cautamente riferendone importanti momenti visualizzati, appunto, da un uscio
socchiuso. Molto opportunamente Di Spigna introduce i capitoli della sua
amabile silloge con altrettanti
prologhi, garbate e limpide ouverture
che aiutano immediatamente a prendere confidenza con gli aspetti formali
e con i contenuti non più segreti della sua matura scrittura poetica,
germogliata in tempi non vicini.
Sono prologhi, piuttosto brevi, schegge di poesia
dalla percepibile chiarezza compositiva che accompagnano il lettore
all’incontro con figure femminili, capaci in vario modo di dare amore; con
l’incanto inesauribile delle stagioni; con le luci, le ombre e i colori,
magistralmente esaltati nei dipinti di celebri pittori; con la bellezza di straordinarie città e
della nostra terra, verso la quale il poeta afferma il proprio senso di
appartenenza anche tramite l’appropriato uso del dialetto. Il lettore,
infine, incontra l’autore che parla
senza alcuna enfasi né toni angoscianti di se stesso, rivelando la propria
identità.
La poesia è verità, una verità che non si consuma. Robert
Musil in L’uomo senza qualità
dichiara che “non è vero che il
ricercatore insegue la verità. È la verità che insegue il ricercatore”.
D’altronde, perché mentire! Il poeta scrive
soprattutto per sé stesso, ma è felicissimo che suo tramite si generi una sorta
di fecondazione della parola che invade la coscienza del lettore, tenuto conto,
che “anche la poesia più apparentemente
privata chiama in vita una parte della coscienza collettiva”. (F.Fortini) E attraverso la poesia si ricerca e si
realizzano intese fra scrittore e
lettore che si rinnovano di volta in volta
e danno consistenza alla comune riflessione sull’importanza dei
sentimenti e del sapere, che il nostro rumoroso
tempo avvolge di vacuità.
È ben noto il pensiero di Marcel Proust (Il tempo ritrovato) per cui “ogni lettore, quando legge, legge se stesso.
L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli
offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non
avrebbe forse visto in se stesso”.
Un’altra citazione nota la traggo dal saggio su Friedrich
Schiller di Benedetto Croce Poesia e non poesia, per il quale “nella vera poesia le espressioni che suonano
più semplici ci riempiono di sorpresa e di gioia perché rivelano noi a noi
stessi”.
Ebbene, da quell’uscio socchiuso si è dipanato
dinanzi allo sguardo stupito del poeta un nuovo orizzonte esistenziale che non
ha desiderato disperdere, anzi lo ha gradualmente registrato in un ideale
diario, le cui pagine bianche si sono ad una ad una affollate di parole, di
voci, d’immagini, anche di interrogativi che “vanno poi a costituire - scrive Giancarlo Pontiggia – i grandi temi della poesia di ogni tempo”.
Così, si respinge la solitudine. Paul Valery è, a proposito, categorico
nell’asserire che “un uomo solo è sempre
in cattiva compagnia”.
Ed ecco comparire esatti profili di donne trattate
con lodevole garbo. Sophie, ad esempio, è una frequentatrice di marciapiedi, ma
“sembra un angiol del Signore”,
quando veste gli abiti più belli; allo stesso modo Giada che non fa domande è
anch’essa un “angel caduto dal suo cielo”,
mentre La Dydi
di Place Vendome ricorda fisicamente una “giovane
dama di lignaggio antico”.
In Di Spigna è prevalente l’opzione per un
linguaggio poetico descrittivo e fortemente comunicativo, che esclude ambiguità
interpretative, condividendo il pensiero di Vincenzo Cardarelli, per il quale “il verso serve a parlare da sé”. Così,
la costruzione delle poesie di questa silloge è tutt’altro che forzata e i
versi mai irruenti che le compongono sintetizzano lo stato d’animo riflessivo
dell’autore, svelato serenamente nelle diverse composizioni, che perseguono e
conservano un saggio equilibrio fra la profondità dei contenuti e la necessaria
chiarezza nel manifestarli.
Il poeta non deroga da tale atteggiamento
nell’esternare con parole misurate e con accento partecipativo le sensazioni
avvertite nell’avvicendarsi delle stagioni, raccolte in deliziosi quadri
intitolati alla primavera, auspice di una rinnovata giovinezza; all’estate,
dove negli assolati pomeriggi “l’unica
voce che si sente/è il rumore del nulla”; all’autunno, simbolo di
un’inquietante stagione della vita e, infine, all’inverno, emblematicamente
risolto nell’immagine di una lunga spiaggia, sovrastato da un cielo “racchiuso da nuvole prive di vita”.
Questo obiettivo di ordine lessicale, ma non solo,
è conseguito anche nelle poesie dedicate a luoghi cari al poeta, rappresentati
mai banalmente, appunto perché realmente vissuti. Luoghi, si legge nell’omonima
poesia, che “non son cornice, una qual
che sia,/ sono la tela, la trama, son l’ordito/della vita d’ognuno”. Luoghi, quindi, non soltanto spazi geografici,
ma anche luoghi dei sentimenti, dello spirito, della libertà. Luoghi con i
quali il poeta ha stabilito un solido legame di lunga durata.
I suoi occhi e il suo cuore sostano su Fiumaretta,
“granello di cielo capovolto,/un petalo
di rosa in un roseto”; su Porto Venere, “promontorio roccioso,/chela di granchio d’aspetto minaccioso”; sul
Mare nostrum, “che ha l’intenso spessore
dell’azzurro/e ad ogni tono accende il tuo stupore”; sulla Terra di Liguria
, di volta in volta, definita argutamente “terra
che non c’è”; “terra fatta così, come
nessuna”; “terra desiderata e mai
scordata”; “terra di patimenti,
violata”; “terra ruvida e dura, terra di mare”. Descrizioni
veritiere e totalmente condivisibili. Ma l’itinerario geografico-poetico di Di
Spigna fa tappa anche a Capri, a Praga, a Dresda, sosta nell’incantevole città
di Venezia dall’immensa storia e dalla
straripante ricchezza d’arte.
É ammirevole il commovente richiamo ad una
straordinaria pagina di storia scritta dagli spezzini, quando la città, Medaglia
d’oro al valor civile, non fece mancare il proprio generoso sostegno alle
migliaia di ebrei sopravvissuti alla deportazione nazista, uomini, donne e
bambini che sulle navi Fede e Fenice salparono l’8 maggio 1946 dal
porto della Spezia, per raggiungere la
Terra promessa. La
Spezia è il Porto di
Exodus e per Israele la Porta di Sion. a motivo della solidarietà e
del concreto aiuto manifestata dai suoi abitanti. Scrive Di Spigna “E per riconoscenza che ci coglie,/nel
Giardino dei Giusti ricordata,/un albero è cresciuto nel tuo nome”.
Il corpus dominante di Dietro l’uscio socchiuso è occupato da un nutrito numero di liriche
nelle quali ricorre il tema dell’amore, parola certamente antica, che i poeti
mantengono profumata di fragranza, di autenticità e di modernità. L’amore con
le sue numerose declinazioni (sesso, desiderio, eros, agàpe, amicizia, ecc.) è
una parola che non invecchia mai.
Il ritmo e la coerenza compositiva dell’intera
raccolta suggeriscono una lettura continuativa, non necessariamente guidata dagli
indizi interpretativi, solitamente sottintesi dai titoli delle liriche.
Preferisco allora evidenziare l’apprezzabile unitarietà dell’insieme, senza
indugiare sulle singole composizioni, che davvero costituiscono un cantico
leggiadro, un vero e proprio inno all’amore, inteso come irrinunciabile e
indelebile esperienza esistenziale, attributi che ne garantiscono, appunto, la
perenne freschezza.
L’amore del nostro poeta, spesso la luna si
affaccia per testimoniarlo, è molto profondo e si manifesta in un succedersi di
espressioni trasparenti da non codificare, che hanno il valore di una
confessione aperta. Non c’è di meglio della poesia per comunicare i piaceri e
le laceranti ferite dell’amore che per Mario Luzi “aiuta a vivere, a durare,/ l’amore annulla, e dà principio”. (Aprile-amore)
Un’altra enclave della raccolta propone alcune
poesie che onorano la pittura, genere artistico verso il quale il poeta mostra
avvertibile sensibilità ed il richiamo alla famosa locuzione latina di Orazio Ut pictura poesis è quanto mai
pertinente. Sì, un dipinto può trasmettere sensazioni poetiche ed anche la
poesia diffonde, talora, impressioni pittoriche.
Ho citato frettolosamente Orazio, il quale nell'Ars poetica considera la poesia come
unione dell'ars e dell'ingenium , richiamando la centralità del
binomio forma-contenuto, elaborati dal poeta per conseguire la perfezione.
Leonardo, da parte sua, affermava che “la
pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca, e l'una e l'altra
vanno imitando la natura quanto è possibile alle loro potenze”.
Altri versi accuratamente scelti descrivono tele
famose, che il poeta intende mantenere sempre più vive esponendone le diverse
peculiarità, dopo aver affermato che “la scintilla del genio è necessaria/a
coglier la bellezza della forma”.
É affascinato, ad esempio, da un Plenilunio, che ha per protagonista una
luna “disincantata, immobile, lontana”;
da un capolavoro di Van Gogh con “i gigli
azzurri, la sedia, i girasoli,/i campi di lavanda, il sole viola”; dalla
Ballerina di Degas, “lieve farfalla
tenuta prigioniera/nell’angusto teatro del mio cuore”; dalla celebre
Cattedrale di Rouen, “trionfo di luce al
sole chiaro”, ripetutamente dipinta da Claude Monet; dalla contestata Colazione sull’erba di Éduard Manet. Ma
anche la pittura di Francesco Vaccarone è abilmente e amabilmente riassunta in
trentatre efficaci versi. Con indubbia originalità, adottando un linguaggio
aulico, Di Spigna colloca “nel giron del
canto qual che sia” del poema dantesco il pittore Domenico Fiasella di Sarzana
“ove lasciò di sé traccia preclara”.
Come tanti autori anche Egidio Di Spigna ci esorta
con la sua poesia a non sottovalutare le più piccole emozioni che s’incontrano
nella quotidianità, invitandoci a rivolgere sguardi silenziosi verso quanto si
dispiega oltre il nostro uscio socchiuso, più o meno consapevolmente
trascurato. Il richiamo al silenzio non è casuale, poiché nel silenzio la
riflessione s’insinua naturalmente nella via della verità, riuscendo, davvero,
ad aiutarci a meglio vedere e considerare quanto di piccolo o di grande ci
circonda. E nel silenzio ci si apre alla trascendenza, al bisogno di Assoluto.
Vorrei concludere con un pensiero di Franco
Fortini, sulle peculiarità e, direi, sull’inesauribile necessità di poesia.
Scrive l’eccellente poeta e saggista letterario che “tutta la poesia ha con sé dei fini di persuasione, di esclamazione, di
informazione e di emozione; afferma qualcosa, lo nega, lo chiama, ragiona ecc.
Tutto l’intero discorso poetico è disposto in modo tale da evocare una separatezza
da quei fini, in modo da mostrare una seconda finalità, è disposto in modo da
costringere il lettore, l’ascoltatore ad avvertire una quantità di sintomi che
negli altri discorsi non ci sono o che non sarebbero così importanti, come ad
esempio la quantità delle figure retoriche o del discorso, gli effetti fonici,
le scelte lessicali e così via, in rapporto con strutture che apparentemente
sono simili a quelle che appaiono nella comunicazione non poetica”.
Ebbene, leggendo Dietro l’uscio socchiuso, si resta piacevolmente attratti dal
succedersi di autentiche rivelazioni che non sono esclusive della sola
quotidianità del poeta. Il tutto non è, comunque, da considerare fine a se
stesso.
Non a caso per la poetessa Wislawa Szymborska,
idealmente d’accordo con Benedetto Croce, “ogni
poesia deve costituire una sorpresa ed essa non nasce mai per tutti i giorni,
ma solo per la festa, è frutto d’eccezionalità”. C’è coincidenza con Jorge
Luis Borges, quando nel prologo alla sua Opera
poetica scrive che “ogni poesia è
misteriosa: nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere”.
Allude al mistero anche Alda Merini:”Quando
chiama l’angelo della poesia – sono sue parole – devi lasciare tutto”.
Con questo atteggiamento mirato a sostenere la
poesia come genere, per far sì che, lo rileva giustamente Vittorio Coletti,
ordinario di Storia della lingua italiana nell’Università di Genova, “non rischi di essere la letteratura degli
autori, ma non dei lettori”, vi
esorto ad avvicinare l’itinerario poetico e umano tracciato nella esemplare
silloge di Egidio Di Spigna, che ho cercato d’interpretare, cercando di mettere
in pratica la condotta intellettuale di Tullio Kezich sceneggiatore, scrittore
e stimatisimo critico cinematografico scomparso nel 2009, il quale dichiarava
che “un critico è un buon critico se
aiuta lo spettatore a capire il film (romanzo, poesia, dipinto, scultura, brano
musicale, ecc.) meglio di quanto non potrebbe fare da solo. Se sbaglia i
giudizi, non è necessariamente un cattivo critico. È un cattivo critico se non
risveglia la curiosità”. Confido anch’io di essere riuscito, anche in
piccola parte, a suscitare la vostra curiosità.
Valerio P. Cremolini